Regia di Leonardo Di Costanzo vedi scheda film
In un giorno d’estate la quindicenne Veronica, rea di aver commesso un imprecisato sgarbo alla camorra, viene rinchiusa in un edificio diroccato; il diciassettenne Salvatore, venditore ambulante di granite, riceve l’incarico di sorvegliarla in attesa che il boss Bernardino decida sul da farsi. Trama scheletrica, unità di tempo e di luogo, pochi personaggi; dialoghi dapprima bruschi e sospettosi, poi via via più aperti alla fiducia. Il senso della storia viene enunciato dalla prima frase della voce narrante: “Succede che gli uccelli che vivono in gabbia, anche se gli apri la porta, non fuggono”. Qui i prigionieri sono due, perché entrambi sono costretti a stare lì contro la propria volontà; ma paradossalmente quell’intervallo di convivenza forzata, quella pausa nella miserabile routine quotidiana finisce per assomigliare all’ora d’aria dei carcerati: una boccata d’ossigeno, prima di rientrare nella cella delle proprie esistenze. Buona parte della riuscita di un film palesemente girato con quattro soldi spetta alla scelta della location: all’inizio sembra un capannone industriale dismesso, poi si rivela un ex luogo abitato (a me sembrava un collegio, ma dalle altre recensioni apprendo che è un ospedale psichiatrico), con un parco labirintico che non finisce mai; un luogo astratto, isolato dal resto del mondo, quasi magico, dove la fantasia può galoppare fino a credersi nell’isola dei famosi. La città di fuori si vede solo nella prima e nell’ultima inquadratura, in campo lungo, e nella scena sul tetto, dove i due ragazzi osservano il formicolio umano come se non lo avessero mai guardato veramente. Oltre la città ci sono solo gli aerei che solcano il cielo in continuazione, creature di un altrove che sembra così lontano.
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