Regia di Frédéric Videau vedi scheda film
Nell'attesa di vedere "3096 Tage", possiamo dare un'occhiata a questo: la versione francese di una storia che è palesemente - benché non dichiaratamente - ispirata alla vicenda di Natascha Kampusch, la ragazzina austriaca rimasta per anni sequestrata nella casa dell'uomo che l'aveva rapita quando era ancora una bambina. La protagonista del film si chiama Gaelle, mentre il mostro, che, come nella realtà della cronaca, è un giovane single, si chiama Vincent. Lei riuscirà a fuggire, e lui, non reggendo al trauma della separazione, si suiciderà subito dopo. La storia è nota a tutti, e non ha bisogno di tanti commenti. Ogni tentativo di riflessione rischia peraltro di cadere in uno scontato patetismo, oppure in una pretestuosa arbitrarietà. Forse, anziché cercare di capire e di spiegare, è più opportuno rimanere in disparte ad osservare. Solo così si può cogliere il cuore della questione, che risiede nel delicato rapporto tra il prima e il dopo. Il pensiero, per effettuare il confronto, deve muoversi avanti e indietro. Non importa l'ordine, perché la frammentazione del tempo costringe a sorseggiare i momenti uno a uno, e lentamente, per individuare un gusto complessivo in quella anomala composizione di sapori. Questa vagabonda discontinuità è il punto di forza di un film che ci parla dell'assurdo in maniera indiretta, attraverso una vertiginosa oscillazione fra gli opposti, fra il "dentro" e il "fuori" di una prigione nella quale un giorno, improvvisamente, è rimasta intrappolata la vita di una giovane. Il vuoto, per Gaelle, ha due volti: da una parte la mancanza d'aria e di luce, che caratterizza la claustrofobica condizione di una schiava costretta a nascondersi agli occhi del mondo, dall'altra parte il ritorno ad un passato che per lei non esiste più, perché, dopo la sua misteriosa sparizione, si sono bruscamente interrotti, per sempre, i legami che la definivano come figlia, amica, compagna, persona appartenente ad un preciso contesto umano e sociale. Eppure Gaelle non cessa mai di essere "vera" e cosciente, pienamente presente ad una realtà nella quale, suo malgrado, si trova ad aggirarsi da totale estranea. La vediamo costantemente confinata in una opprimente indeterminatezza, nella quale non può far altro che inghiottire, ad ogni istante, i rigurgiti di una identità innaturalmente negata. Sarebbe forse meglio dire "concessa in cambio di niente". Tutti, in ogni circostanza, le chiedono pressantemente di essere e fare ciò che sarebbe irragionevole pretendere da chiunque, anche in condizioni normali: dimenticare se stessa ed assoggettarsi anima e corpo alle loro esigenze affettive, che la vorrebbero perennemente serena e disponibile. Il titolo del film fa riferimento a quello che per Gaelle è il più grande desiderio: starsene per conto proprio, senza sentirsi in dovere di rappresentare, per alcuno, una presenza fondamentale, conforme alle altrui aspettative ed insensibile alla necessità di crescere, cambiare, scegliere in maniera autonoma. I tanti flashback che inframmezzano il racconto della ritrovata libertà sono schegge di inspiegabile dolore, i frantumi taglienti di un sogno spezzato. Ripercorrerne le immagini è come camminare sui cocci di un senso appena intravisto: un significato impossibile da ricostruire, che può solo essere accantonato, per ricominciare daccapo.
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