Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
E’ un’opera di rara potenza e tenuta che conferma la grandezza registica di Audiard. Forse non raggiunge la tragica intensità di Un prophète ma comunque ci si avvicina molto nel suo essere a sua volta un trattato psicologico delicato e violento come il suo protagonista che è istintualmente brutale, ma all’occorrenza anche accogliente e tenero.
Ispirato ai racconti di Craig Davidson, scrittore canadese di appena 27 anni, De rouille et d’os, l’ultima fatica registica di Jacques Audiard, ne riproduce magistralmente il senso, l’ambiente, il degrado, la sofferenza e la determinazione furente, ci trasmette con una messa in scena epidermicamente tattile, tutti i colori, gli odori ed i sapori di un mondo (quello evocato dallo scrittore) in cui “Dio vomita i tiepidi”. Il risultato, tangibile ed emozionale, è quello di un’opera di rara potenza e tenuta che se forse non raggiunge la tragica intensità di Un prophète (folgorante romanzo di formazione carceraria e spietata analisi dei rapporti anche economici di potere che si instaurano dentro uno spazio circoscritto come quello) ci si avvicina comunque di molto, nel suo essere ancora una volta e al tempo stesso un trattato psicologico delicato e violento, esattamente come violento e delicato è il suo protagonista istintualmente brutale, ma all’occorrenza anche accogliente e tenero, oltre che un’analisi sociologica molto accurata.
Derivato dunque dalle atmosfere e dal clima della creazione letteraria di Davidson da cui trae spunto anche per il titolo, è poi però totalmente autonomo nelle vicende narrate, se si considera che i due personaggi principali, il pugile Alì e l’addestratrice di orche Stéphanie, in quei racconti non ci sono proprio. C’è in ogni caso comunque – ed è importante - la perfetta “corrispondenza” di intenti con ciò che ha inteso esprimere lo scrittore, così come è rimasto immutato anche l’approccio del regista alla sua poetica nel rappresentarci, sia pure da un’altra angolazione, l’immagine di un mondo moderno vacillante (sono parole dello stesso Audiard) all’interno del quale i singoli percorsi vengono amplificati dagli incidenti della vita (…) un universo razionale e impietoso in cui i corpi devono sforzarsi, creare energie e affinità per cercare di capovolgere il destino loro riservato, che era poi gran parte della materia vibrante di cui si nutriva e viveva anche la sua precedente pellicola, ad oggi probabilmente il suo capolavoro.
Si può allora ben dire che la stessa forza narrativa che Audiard aveva profuso in Un prophète - ragionata rivisitazione rinvigorita e reinterpretata a suo modo del genere carcerario tipico di una certa stagione del cinema francese da Bresson a Becker con cui ha messo in scena da par suo la parabola esistenziale di un riscatto personale dentro a un degrado ormai generale e generalizzato - la si ritrova intatta anche qui, in un percorso sicuramente diverso, ma indubbiamente non meno emblematico, che questa volta sceglie di oscillare fra la fiaba e il melodramma, senza dimenticarsi però di fornire prepotenti accenni e sottolineature di fortissima critica sociale (la parcellizzazione progressiva sempre più feroce e degradata, cinica e settaria, delle classi della nostra società) che rappresenta e ripropone con la consueta, invidiabile lucidità e una precisione di tratto quasi entomatologica.
Una vicenda a conti fatti probabilmente più intimista del solito dunque che trasmette però quando - e nella maniera in cui - meno te lo aspetti, una ragguardevole dose di travolgente energia che suscita empatia grazie alla complicità non secondaria di una macchina da presa ed uno “sguardo” capaci di accarezzare volti e corpi con un approccio davvero molto “sensoriale”.
Non ci racconta molto del “prima” dei suoi personaggi che incontriamo in un presente che parte proprio da Alì, per focalizzarsi poi in un contatto all’inizio quasi casuale con Stéphanie, e nell’evolversi catartico dei successivi accadimenti che - specialmente per la donna - risulteranno essere fortemente traumatici e traumatizzanti.
Siamo in Costa Azzurra quando facciamo la conoscenza di Alì, un uomo che forse fugge da qualcosa e che cerca nei cestini dei rifiuti un po’ di cibo per sfamare il biondo figlioletto Sam di 5 anni che si porta dietro quasi come un bagaglio a mano, un bambino a cui non riesce a fare nemmeno una carezza che ha sottratto a una madre altrettanto sbandata per provare ad accudirlo, ma senza un evidente amore “paternale” che sembra non provare. Arriva dal nord della Franca (o forse addirittura dal Belgio) quest’uomo senza casa, senza un soldo e senza un lavoro: ha intrapreso il viaggio per ricongiungersi con la sorella, cassiera in un supermercato ad Antibes, a cui chiederà momentaneo asilo, e che lo accoglie e lo ospita nella rimessa della propria abitazione occupandosi anche del ragazzo.
Ha un passato da pugile e da lottatore quell’uomo rozzo e anaffettivo che trova facilmente grazie alla sua greve possanza fisica, un ingrato lavoro come buttafuori di un locale alla moda. Sarà proprio nello svolgimento di tale attività che una notte, tentando di sedare una rissa, avrà l’opportunità di fare la conoscenza con Stéphanie, provocante ed irrisolta ragazza rimasta coinvolta e ferita nella bagarre tutta al maschile esplosa intorno alla sua figura. Due personaggi totalmente antitetici dunque si potrebbe dire, provenienti da ranghi sociali e percorsi personali diversi e in apparenza incompatibili: da una parte un uomo duro e scontroso, quasi asociale nei rapporti col prossimo, compresi quelli sessuali consumati con bestiale, rabbiosa irruenza e poco sentimento, che prova a racimolare un po’di soldi in più al di fuori della legalità acclarata, accettando di farsi massacrare in illeciti incontri di boxe clandestina e mettendo videocamere nei supermercati al servizio del padrone di turno, per sorvegliare illecitamente (e poi poterle licenziare) le cassiere che tentano di sopravvivere arrotondando il loro magro salario, “rubando” per il proprio consumo familiare gli alimenti scaduti destinati a finire nella pattumiera; dall’altra una donna insoddisfatta ed esibizionista, dalle lunghissime gambe dispensatrici di fortissimi turbamenti ormonali, che nella sua prima apparizione, ci viene presentata quasi come una “principessa” arrogante, affascinante ed ubriaca, capace di scatenare con la sua ostentata avvenenza messa in mostra senza pudore, i bassi istinti dei maschi e le dispute per il possesso del suo corpo. Alì e Stéphanie insomma qui al loro primo “approccio” di conoscenza: lui la riaccompagna a casa quella sera, forse con la speranza di poter poi “cuccare” e non andare in bianco, tratto in inganno dalla sfacciata sfrontatezza esibizionista della ragazza, ma solo per scoprire invece che là c’è un fidanzato che la aspetta, sveglio e piuttosto arrabbiato. Tutto finisce così senza un nulla di fatto se non il numero di telefono che Alì le lascia per ogni evenienza futura e che poi come vedremo, sarà la molla inaspettata per riallacciare in modo più stretto (ed anche “appassionato”) i loro rapporti, poichè ben presto gli equilibri si rovesciano, visto che il destino ha in serbo per la donna – addestratrice di orche in un acquario, come già detto sopra - una tremenda menomazione fisica, di quelle che incidono profondamente nella carne, degne di un film di Cronenberg, dovuta a un gravissimo quanto fulmineo “incidente sul lavoro”.
Ed è proprio da qui, dall’episodio traumatico che deturpa il corpo di Stéphanie che poi la storia si sviluppa e si dipana alternando i registri narrativi e i piani del racconto fra il dramma e la commedia, nel rappresentarci la strenua lotta che i due protagonisti dovranno sostenere ciascuno per suo conto e poi alla fine insieme, per mantenere la propria dignità al di là dei fatti e delle circostanze, oltre che dei pregiudizi anche sociali.
Incapace di sopportare la pietà malcelata che la sua mutilazione suscita nella maggior parte delle persone che la circondano, la donna troverà infatti proprio nel coriaceo, spiccio, elementare Alì, una sponda autentica di “impietosa” e veritiera comprensione che solo un essere umano capace di chiamare le cose con il proprio nome e vivere la propria esistenza come può e senza pregiudizi, è in grado di offrire davvero, mutuata dalla sua maniera di affrontare il mondo decisamente borderline e quindi avulsa da ogni schema e convenzione.
In una società allo sbando come quella in cui viviamo, messa ancor più in ginocchio dalla crisi economica e dal cinismo di un sistema che ormai si basa su un controllo pervasivo e onnipresente e dove davvero tutti, proletari e borghesi senza alcuna differenza di casta o di lignaggio stanno ugualmente male, non resta che il corpo allora, affamato, ferito, mutilato, sofferente, ma anche capace di trovare il piacere nel sesso e nel combattimento, a fare la differenza e a dare un senso alla quotidiana lotta per la sopravvivenza, a stimolarci a non arrendersi, ad incitarci a vivere una vita che deve comunque essere vissuta se vogliamo esistere, a dirci che è lui, quel corpo martoriato pur con tutte le profonde cicatrici che si porta dietro, l’unica vera cosa tangibile che ci rimane e su cui possiamo davvero contare per “resistere” ed andare avanti.
Supportato dalla straordinaria prova dei due protagonisti, dalla loro impressionante adesione non solo ai personaggi a loro affidati, ma anche al paesaggio che li ospita, fotografato spesso in maniera naturalistica, ma a tratti sublimato in una astrazione che diventa evocativamente poetica, da uno Stéphane Fontaine in stato di grazia, il film, insistendo e lavorando molto sull’elemento amniotico (l’acqua nel film è spesso centrale), racconta dunque una storia che è, come gia accennato prima, potente e dolce allo stesso tempo, tenera e infantile come la lotta che Alì (che evidentemente rappresenta nell’economia del racconto un elemento simbolico che va ben oltre la sua figura carnale) prima da solo e poi insieme a quella che diventa “la sua donna”, deve sostenere per rovesciare quel destino avverso che la vita sembra avere loro destinato in sorte (basta osservare con quale pudore viene risolto l’episodio dell’incidente che priva delle gambe la ragazza senza la minima sottolineatura voyeristica della tragedia o il semifinale sul lago ghiacciato, per comprendere la superiore qualità stilistica del regista, che si ritrova poi anche nelle annotazione “laterali” qui davvero importanti persino quando sono quasi impercettibili, come nell’illustrazione del primo congiungimento sessuale fra i due con la richiesta esplicitamente espressa di evitare il bacio, che si conferma ancora una volta come l’elemento cardine e simbiotico del sentimento condiviso di ogni rapporto amoroso davvero corrisposto che impegna l’anima e il cervello oltre che il sesso e quindi molto più “impegnativo” di una semplice penetrazione fine a se stessa).
Quasi una fiaba dunque (si veda a tal riguardo la sequenza davvero “magica” di Stéphanie che ritorna al parco acquatico dopo l’incidente e dirige, quasi come fosse sul podio di un’orchestra, le sue orche “ritrovate” sia pure dietro una vetrata) nel rapporto elettivo che sempre lega “la bella con la bestia” che poi diventerà quello complementare di due esistenze dissociate, speculare riflesso di commedie come Quasi amici, visto che qui alla superficialità consolatoria che tale pellicola esibiva come elemento di “riconoscibilità” certa, contrappone invece la quotidianità di una sofferenza sublimata e stemperata dalla immediatezza reale - al tempo stesso disincantata e disinibita - che Alì porta con sé quasi come una dote naturale, che è poi quella di accettare le cose come sono senza porsi complicate domande e nessun effettivo tornaconto personale, che pone in atto quando si prende cura di lei (o meglio del suo corpo martoriato per lo meno all’inizio) con la disinteressata spontaneità di ci sa che la vita va presa così come viene e non gli si può chiedere di più, una “lezione” indotta e sotterranea tutt’altro che esibita, che anche la ragazza alla fine riesce a fare diventare la sua filosofia esistenziale.
Di ruggine e ossa è dunque anche il sapore fra il dolciastro e l’amaro che resta in bocca allo spettatore al termina della visione di questo toccante percorso programmaticamente romantico, persino barocco in alcuni punti, con le sue ricercate cadute nel melò che a volte sfiorano persino la tragedia (la sequenza un pò dardenniana del piccolo Sam che cade nel lago ghiacciato), sceneggiato dal regista stesso con la collaborazione di Thomas Bidegain, e dove il valore aggiunto va ricercato, oltre che nella qualità complessiva della messa in scena sempre controllata e che non corre mai il rischio di scadere nei facili pietismi commiserativi del compatimento, anche nella prova maiuscola dei suoi interpreti a cui accennavo prima, notevole anche sotto il profilo dell’impegno “fisico”: una Marion Cotillard davvero in grande spolvero, bravissima a recitare “senza gambe” o con protesi meccaniche per quasi tutto il film, empaticamente sofferente e spesso ripresa al naturale (parlo del trucco, così impalpabilmente impercettibile da risultare praticamente assente) puntando soprattutto sulla forza espressiva del suo sguardo e sulla piega dolente della bocca per rendere umanamente credibile la sua figura, e l’autentica rivelazione del belga Mathias Schoenaerts di straordinaria possanza fisica ed espressiva che fornisce davvero corpo e anima al suo Alì, e al suo essere un uomo inesorabilmente imperfetto che non riesce a dare completezza alle sue scelte e alle sue azioni.
La regia di Audiard scava all'interno dei personaggi con un sapiente e carezzevole uso della cinepresa – e non è certo una sorpresa questa, ma semplicemente una conferma della sua eccelsa statura di fine narratore e scrutatore di anime. Lo fa ricorrendo a volte a scelte stilistiche rischiose e molto radicali, ben supportate per altro dall’ispirato commento musicale di Alexandre Desplat che contribuisce a fare di questo film un’opera tutt’altro che secondaria e strettamente legata all’attualità sociale del momento, della quale ne analizza le crepe e le contraddizioni oltre che i limiti anche di tenuta, fatta di fratture e di possibili rinascite che hanno un senso solo se rimane viva la coscienza delle sofferenze patite, perchè come ben suggerisce M Valdemar nel sul bellissimo commento, se le gravi fratture alle mani (e il riferimento è al magnifico pre-finale sul quale anche io avrei preferito si fosse fatta la chiusa senza ulteriori “indulgenze”) non guariscono completamente e il dolore che provocano mai cesserà di ripresentarsi e ricordare sciagure avvenute o scampate, le fratture delle ossa che costituiscono lo scheletro ferito tormentato e impaurito di una relazione sentimentale (im)possibile si possono ricomporre e assumere una nuova forma, una unione in cui gambe e mani malridotte superano l’handicap e articolano un legame concreto, in divenire, da vivere, di quelli insomma che forse lasciano accesa una speranza perché (e ce lo ha ben evidenziato Zombi con una metafora che a me sembra davvero molto pertinente), nel film di Audiard, Alì e Stéphanie sono un pò come le gambe artificiali di lei; devono adattarsi e abituarsi l'un l'altra, cercare l'incastro ideale, che alla fine sembrano finalmente trovare, ancora una volta in una maniera totalmente fuori dagli schemi di qualche benpensante paludato.
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