Regia di Manoel de Oliveira vedi scheda film
Il teatro è sguardo e ascolto. È paziente osservazione di una verità tacita che lentamente si dispiega, nei gesti e nelle parole, emergendo poco a poco dall’oscurità. L’evento atteso è un ritorno, oppure una rivelazione. Ed il colpo di scena, che ci risveglia dal sonno di quella dichiarata aspettativa, è l’improvvisa rimozione dell’unica certezza su cui la storia poteva contare. Il vecchio Gebo è quel punto fermo. L’anziano contabile, che vive un’esistenza pacifica e ripetitiva, tra la dignitosa povertà della sua casa ed il tiepido conforto di pochi affetti familiari, è il fulcro di un racconto che si sviluppa intorno al fondamentale contrasto tra la luce ed il buio, tra la sincerità e la finzione. Suo figlio Joao è scomparso da molti anni. Ha abbandonato i genitori e la moglie per dedicarsi al crimine. È diventato un ladro, ma la madre è convinta che sia partito per un paese lontano. Gebo e sua nuora conoscono la verità, ma gliela tengono nascosta, riferendole notizie false, e simulando contatti inesistenti. Quando Joao, inaspettatamente, ricompare, l’illusione comincia ad incrinarsi, e sembra destinata a crollare. Eppure una sinistra magia le impedisce di morire, pur di fronte alla chiara volontà del giovane di mostrarsi per quello che è: una creatura della notte, che ha detto no alle regole del mondo, scegliendo la via della ribellione. Nella tranquillità dell’ambiente domestico, la sua presenza emana l’aura sinistra dei segreti più cupi, di un male che si annida in fondo all’anima, facendo arrivare in superficie soltanto un’eco sorda e vaga. La voce di Joao proviene da quell’abisso, portando con sé i funerei accenti della rinuncia, della rassegnazione all’inevitabilità della miseria e dell’emarginazione, della convinzione che non si possa combatterle se non attingendo al lato più istintuale e primitivo della propria umanità. Joao è un selvaggio animale predatore, in un ambiente abitato da civilissimi profittatori: le sue incursioni sotterranee, attraverso il sottobosco della città, sono un’ombra gettata sul finto scenario di una ricchezza luminosa che sembra coincidere con la vigente concezione del decoro, della felicità, del prestigio. L’idea è fuggevole ed inconsistente, destinata a declinare insieme al giorno nell’ora del tramonto, e a coprirsi di brividi freddi all’arrivo dell’inverno: ciò che rimane è solo lo scheletro robusto, per quanto scarnificato, degli antichi valori di modestia e rettitudine, inflessibilmente sostenuti da Gebo in ogni momento. La sua figura, nello spazio angusto della scena, occupa sempre la stessa posizione, seduta al lato sinistro del tavolo, davanti al libro dei conti ed accanto alla lampada. Gli altri personaggi si alternano, nell’affiancarlo, per affidargli le loro confessioni e ricevere consolazione e consigli. Il suo approccio alla realtà rimane inalterato, solido e coerente, e non si lascia scuotere dalla vicinanza del dolore (Doroteia), che produce fragilità ed espone all’inganno, né dalla inconcludente levità dei sogni ad occhi aperti (Chamiço), né, ancora, dalla frivolezza dell’ambizione (Candidinha). La vera sfida giungerà, però, quando egli si troverà faccia a faccia con il suo contrario, il negativo nato dal suo stesso sangue, che tradisce i suoi insegnamenti e lo ferisce al cuore. L’amore è messo alla prova ed il protagonista mette in gioco la sua centralità. È la traduzione del sacrificio in chiave drammaturgica, con il vincitore che si afferma come tale facendosi spontaneamente da parte. Ed è la soluzione di un dilemma che si realizza come estrema, liberatoria concessione al paradosso.
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