Regia di Luigi Zampa vedi scheda film
"Ma questi sono vestiti da fascisti!".
"E come vorrebbe che fossero vestiti, da cowboy? E poi in casa propria ognuno è padrone di vestirsi come vuole. D'altra parte, i muri sono alti e nessuno può vederli dalla strada".
"Ma io non ho nessuna voglia di vederli".
"Professore, la prego vivamente di sopportare qualunque cosa: del resto, li ha sopportati per vent'anni... ci aggiunga ancora due ore, le darò una gratifica".
[Nino Taranto e Gino Buzzanca]
Il professor Luigi De Francesco (Nino Taranto) insegna storia all'istituto magistrale Matteo Raeli di Noto, in provincia di Siracusa. Alle sue allieve, durante le lezioni, non esita a manifestare il proprio disprezzo per le nefandezze del recente passato: "I tempi recenti ci hanno dimostrato che la fine dei tiranni è oscura e miserevole: Nerone fugge travestito da donna, Cola di Rienzo da carbonaio, Masaniello da pescivendolo, Luigi XVI da mercante e un altro, che non nomino per carità di patria, nascosto sotto un cappotto e un elmo tedesco". Ma sono tempi duri, altro che "anni facili" ("Questo è un paese di ipocriti") e De Francesco deve placare la propria esuberanza, come gli consiglia il preside dell'istituto dopo che una studentessa (Armenia Balducci), la figlia del barone La Prua (Gino Buzzanca), ex podestà del comune, si è risentita per le sue esternazioni:
"Le ho detto mille volte che dentro la scuola non si fa politica!".
"Veramente era proprio lei che sotto l'altro regime mi obbligava a paragonare l'impero fascista con l'impero romano, Cartagine con la perfida Albione, gli sbarchi di Cesare in Inghilterra con quelli che poi non si fecero...".
"Allora il governo mi diceva di fare politica, ora mi dice di non farla: ma è mai possibile che lei debba essere sempre del parere contrario? Eppure ne ha passati di guai. Lo sa o non lo sa che il padre di quella scocciatrice domani lo eleggono sindaco? Ed è un uomo che ha le mani dappertutto!".
"Si figuri se non lo so: è il mio padrone di casa".
"E lei si mette contro il governo, contro il sindaco, contro il padrone di casa?".
A causa delle macchinazioni di sua moglie Rosina (Clelia Matania) e di sua figlia Teresa (Giovanna Ralli), che ha il fidanzato Piero (Gabriele Tinti) a Roma, il professor De Francesco, grazie alla raccomandazione di un politico, l'onorevole Rapisarda (Giovanni Grasso), fresco di nomina a sottosegretario, viene trasferito nella capitale. La notizia ingolosisce anche il barone La Prua, che confida nell'amicizia tra il professore e l'onorevole per ottenere favori per le sue attività commerciali e incarica De Francesco, remunerandolo con tanto di stipendio, di curare i suoi affari a Roma occupandosi della gestione delle pratiche amministrative. Arrivati nella Roma della ricostruzione post-bellica, De Francesco e i suoi familiari si sistemano provvisoriamente nell'appartamento del cugino Rosalino:
"Che impressione, mi sembra di stare in aeroplano. E laggiù è ancora Roma?".
"Sì, sono i quartieri popolari. Non voglio dire che questo sia un quartiere elegante: lì vivono gli operai e qui vivono gli impiegati. Lì spendono la vita lavorando con le mani e qui spendiamo la vita lavorando con il cervello".
"Che grande città, mi fa una certa impressione guardarla così dall'alto".
"Ti ricordi come diceva quel personaggio di Balzac avendo visto per la prima volta Parigi? 'E ora a noi due!'...".
"Rosalino mio, ma io non sono mica venuto per conquistare Roma: sarò contento se potrò viverci onestamente e modestamente come ho sempre vissuto".
De Francesco, intanto, si insedia con entusiasmo nella sua nuova cattedra. Meno bene, però, gli va quando deve dedicarsi agli affari del barone, iniziando a sperimentare sulla propria pelle le snervanti lungaggini della burocrazia dei ministeri:
"Scusi, lei ha il passi?".
"Il che cosa?".
"Per entrare, lei c'ha bisogno di un biglietto sul quale è scritto il nome e cognome del visitatore, l'ufficio dove è diretto e il motivo della visita".
"E chi è che rilascia questo passi?".
"Lo rilascio io".
"E allora perchè non me lo dà? Mi fa perdere tempo...".
"Ma lei con chi vuo' parlare?".
"Ah, non lo so".
"Ma come non lo sa?".
"Ecco, io dovrei sollecitare il permesso per un nuovo prodotto medicinale".
"Ah... E lo sa dove sta la sua pratica?".
"No".
"Allora deve iniziare le sue ricerche all'archivio generale".
Non gli resta, quindi, che sfruttare l'amicizia con l'onorevole Rapisarda, che però, inaspettatamente, si rivela persona più integerrima del previsto offrendogli aiuto sempre "nei limiti del possibile e della regolarità". Che, per De Francesco, significa suscitare l'ira del barone, costretto ad accorrere a Roma per risolvere di persona la vicenda ("Io la pago perchè le domande non facciano la trafila: vengo io a farle vedere come si fa! Bene ci combinammo, con questa democrazia..."), rispolverando le sue conoscenze dell'epoca fascista e riuscendo a ottenere l'appoggio per accelerare l'iter di ogni pratica burocratica. Ora non ha più bisogno del suo aiuto e, così, De Francesco perde anche quelle 50000 lire al mese che gli pagava il barone: è disperato, ovviamente, perchè Teresa e Piero stanno per sposarsi e lui ha firmato cambiali per due anni per pagare il corredo della figlia. Sarà lui, adesso, a farsi corrompere, agevolando la promozione di un candidato a un concorso statale: il giorno del matrimonio di sua figlia, però, viene arrestato. Accetterà con dignità la sua condanna, rifiutando anche l'aiuto del giudice Santoro (Domenico Modugno), suo ex allievo, per ottenere una pena esemplare. Ma non sarà il solo a pagarla...
Per rendersi conto della vivacità di umori (e delle innumerevoli qualità) di Anni facili basterebbe leggere con attenzione i nomi che appaiono nei titoli di testa: soggetto di Vitaliano Brancati, da lui stesso adattato insieme a Luigi Zampa, Sergio Amidei e Vincenzo Talarico, colonna sonora (travolgente) di Nino Rota, fotografia di Aldo Tonti, un aiuto regista come Nanni Loy. Credits di assoluto rispetto, quindi, per questo secondo capitolo, dopo Anni difficili (1948), della trilogia, scritta da Brancati e diretta da Zampa, sul ventennio fascista (con l'appendice nel 1962 di Anni ruggenti), interrotta l'anno successivo (con L'arte di arrangiarsi) per la morte dello scrittore: sorretto da uno script perfetto (premiato con il Nastro d'Argento), arguto e caustico nello sbeffeggiare l'innata aspirazione al vizio e alla corruzione delle italiche classi politiche, Anni facili ne sintetizza le coordinate dell'approccio satirico: il bersaglio principale, infatti, è la deriva trasformista e opportunista che sottende l'evoluzione di quelle classi, fotografata in rapporto alle trasformazioni di un Paese in piena ricostruzione e cristallizzata drammaturgicamente sull'esplorazione del periodo fascista e delle sue conseguenze storiche sul tessuto sociale e politico della nazione.
Scrive Paolo Russo (nel saggio La Repubblica nel cinema) su Almanacco della Repubblica: Storia d'Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane (a cura di Maurizio Ridolfi - Pearson Italia, 2003): "In Anni facili [...] la macchina da presa 'pedina' inesorabile, verrebbe da dire seguendo la poetica enunciata da Zavattini, un maestro siciliano che deve rinnegare i suoi ideali di fervente antifascista e umiliarsi gioco forza nella logica della corruzione ormai dilagante, pagando ovviamente di persona le conseguenze. Zampa allarga in un certo senso la prospettiva storica del trasformismo italico, visto comunque più in chiave di pratica sociale che di malcostume politico, sintetizzando in L'arte di arrangiarsi (1954) un quarantennio di storia nazionale, a ennesima conferma dell'affermazione di una linea di pensiero che da Aristotele giunge sino a Croce (e ben oltre), passando per Machiavelli, e basa il suo realismo politico sui rapporti di forza e sull'effettualità delle cose (pubbliche) secondo la nota metafora della volpe e del leone, che Le mani sulla città (1963) e Il caso Mattei (1972) di Rosi esplicitano chiaramente".
Le scelte operate da Zampa e Brancati, apparentemente stridenti tra loro, si rivelano felici e ispirate: quanto più, infatti, i fendenti satirici che lo scrittore dispensa ai nostalgici del ventennio e agli intrallazzatori del presente raggiungono con efficacia i loro destinatari, le virate del film nella commedia di costume e nel bozzettismo ne stemperano con bonarietà di toni la virulenza più pungente (che causerà ad Anni facili la bocciatura in commissione di censura), senza eccedere nel moralismo e nella caricatura (difetti, invece, ascritti al film dai detrattori dell'epoca), ma servendosene, invece, per accanirsi maggiormente sull'inerme protagonista del film e sgretolarne ogni residuo di resistenza. Ne emerge un ritratto garbato e vibrante, sapientemente orchestrato da Zampa (pur senza raggiungere le vette di Processo alla città) tra sdegno civile, impennate sarcastiche e irresistibili siparietti umoristici: dai toni sferzanti dell'incipit al primo giorno di lezione di Taranto al liceo romano ("Come mai siete rimaste così indietro?"...), dalla sua estenuante odissea tra uffici, ministeri, tram affollati e code interminabili, al paradossale dramma dell'anziano reduce della guerra d'Africa, ancora in attesa che gli venga riconosciuta la pensione, fino al raduno segreto dei nostagici in camicia nera, allo sketch teatrale di Riccardo Billi e Mario Riva e ai toni malinconici che ammantano il finale. Nel cast, oltre all'intensa e superlativa prestazione di Nino Taranto (premiato con il Nastro d'Argento come miglior attore protagonista), si segnalano anche uno spassoso Gino Buzzanca, Alda Mangini, una giovanissima Giovanna Ralli, Checco Durante e, nella parte del giudice, Domenico Modugno.
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