Regia di Julian Pölsler vedi scheda film
Una donna (Martina Gedeck) arriva insieme ad una coppia di amici (Karlheinz Hackl e Ulrike Beimpold) in una baita sulle alpi austriache. Rimasta sola dopo che questi amici si recono al più vicino villaggio per fare delle compere, la donna inizia a prendere confidenza con il luogo e con il cane degli amici rimasto con lei. Trascorsa la notte senza che i due abbiano fatto ritorno, la donna decide di raggiungerli al villaggio. Ma mentre si avvia lungo il sentiero, un misterioso muro invisibile gli sbarra la strada. Fatti più tentativi e constatato che da ogni punto della vallata è impossibile andare avanti, la donna si vede costretta a convivere con questa “nuova” condizione esistenziale e lasciare che sia un diario di fortuna a fare da resoconto scritto di questa eccezionale esperienza. Da questo diario si evince che, ad un primo periodo di sconforto, seguono altri dove a prevalere è una ritrovata armonia con i mondi animale e vegetale che la circondano. Nella piccola baita, ha le scorte per qualche mese. Poi deve cavarsela da sola. Con lei vivono un cane, una mucca, un piccolo vitello e due gatti. Che diventano i suoi migliori amici.
Glia abitanti del regno animale e vegetale hanno un rapporto più vincolante con i rispettivi destini, un percorso, cioè, che se non è delineato nei minimi particolari è comunque caratterizzato secondo quel rapporto simbiotico con i disegni deterministici del creato che è quanto basta per scandirne i tempi e gli spazi di manovra. A prevalere, o è l’adesione “naturale” della vegetazione al ritmo delle stagioni con tutto il suo corollario di odori e colori, o lo sviluppo negli animali dell’istinto di sopravvivenza per indirizzarlo al meglio in quel ciclo di vita che a secondo delle circostanze fa essere ognuno una preda o un predatore. Sfugge a questa regola di natura il genere umano, che possiede la ragione per impedire che la facoltà di incidere sulle scelte da compiere non venga circoscritta entro confini già stabiliti. Ma cosa succede quando questo libero arbitrio si trasforma in un potere incontrollato e il rapporto tra l’uomo e gli agenti dell’universo è tutt’altro che improntato alla reciproca armonia ? Cosa succede quando la volontà di potenza dell’uomo lo spinge fino ad intromettersi nel ciclo di vita della natura per piegarla alle proprie esclusive esigenze ? Forse bisognerebbe dargli una prova che i misteri della natura non possono essere del tutto dominati, che avvengono casi inspiegabili rispetto ai quali occorrerebbe dismettere la corazza da predatore e vestire i panni umili dello spettatore silente. Bisognerebbe fargli (ri)conoscere il senso del limite, il suo naturale verificarsi e la sua solenne concretezza.
Di questo parla “Le mur invisible” di Julian Roman Polsler (liberamente ispirato al racconto “Die Wand” di Marlen Haushofer), un film che attraverso la freddezza di una narrazione fatta in voice over ci conduce dentro le “appassionate” riflessioni sul senso della vita, la paura della morte e il ruolo dell’essere umano all’interno del più generale disegno del creato. Un film dalla forte caratterizzazione speculativa quindi, che accetta la sfida di usare degli artifici simbolici per rendere visivamente adeguato il senso di smarrimento etico dell’uomo moderno. Il risultato è un prodotto affascinante, capace di alleggerire la pesantezza dei contenuti narrativi nell’elegia naturalistica catturata da una regia rispettosa del bello.
La natura delle cose fa il suo corso e la donna (di cui non si conosce il nome) impara, dalla sua posizione di “prigioniera” molto sui generis, a penetrarne i misteri, ad ascoltarne la voce e a rispettarne le codifiche spaziotemporali. Il muro invisibile si fa così entità metafisica tangibile, venuto a ristabilire la misura del limite in un tempo percorso dall’illimitato accumulo dello spreco. Perché la donna si riscopre “prigioniera” dentro uno spazio naturalistico ben delimitato, ma forse la fortunata è lei dato che, “dall’altra parte” (come si evince da un’emblematica sequenza), sembra che la vita abbia perso totalmente la vitalità di sempre. Perché solo “al di qua” del muro è probabilmente possibile prendere coscienza di sé completamente, riappropriarsi degli effettivi valori dello spazio e del tempo, capire che al genere umano è data la facoltà di non disperdere la sua peculiare razionalità a patto che non si renda alieno rispetto all’universo mondo che lo ospita. Il muro diventa così metafora di un confine che si apre al mondo attraverso l’imposizione di esplorarlo nel profondo spogliandosi di ogni sovrastruttura sociale. Perché quel muro invisibile non invita a interrompere i rapporti fisici con il mondo di fuori, ma a generare uno strappo metafisico orientato a vivificare il rapporto con il mondo di dentro.
La voce narrante della donna fa da fuori campo lungo tutta la storia, accompagnandoci dentro il resoconto di un’esperienza esistenziale assolutamente eccezionale. La parola scritta diventa per lei uno strumento salvifico in quanto gli consente, non solo di non disperdere nella solitudine il ricordo dei sentimenti, ma anche di riordinarli alla luce della sopraggiunta condizione esistenziale. Solo stando a stretto contatto con la natura più vivida e in armonia con gli amici animali che è possibile capire quanto importante sia il potere dato al genere umano di forzare il corso del destino attraverso la possibilità offertagli di poter decidere della vita e della morte degli altri esseri del creato. Un potere che potrebbe essere ricondotto lungo un percorso virtuoso se solo lo si associasse all’esercizio fattivo di un altro potere : quello della misericordia. Perché è solo in solitudine con i pensieri dell’animo che la donna prende coscienza di essere inserita in un “Noi molto più grande”.
Film affascinante retto da un’ottima prova d’attrice della brava Martina Gedeck, che fa parlare ai silenzi la lingua adulta delle riflessioni speculative.
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