Regia di Jim Fields, Michael Gramaglia vedi scheda film
Finalmente sono riuscito a vedere questo vibrante, appassionato e appassionante film-documentario realizzato nel 2003 da Jim Fields e Michael Gramaglia (che oltre a dirigerlo lo hanno anche prodotto). Un’opera tutt’altro che agiografica, che prova a riportare alla ribalta le vicende artistiche e personali di una band di culto e a mio avviso fondamentale per la storia del rock (o per meglio dire del punk-rock), come è sta quella dei Ramones anche se da subito nei suoi riguardi si sono create due fazioni distinte e contrapposte: da una parte quella di chi adorava incondizionatamente il gruppo, lo venerava fino ad idolatrarlo, formata soprattutto da chi aveva avuto l’occasione di ascoltarlo nelle sue funamboliche esibizioni dal vivo e conosceva a memoria (e ci si riconosceva dentro corpo e anima), i testi provocatoriamente controcorrente delle loro canzoni; dall’altra, quella di chi invece lo considerava l’espressione di una semi-pagliacciata da commedia dell’arte che si limitava a mettere in scena il lato più grottesco di quattro dropout un po’ scombiccherati e privi di spessore (soprattutto musicale).
Certamente un “suono” da prendere o lasciare il loro ispirato a una concezione dell’esistenza e una visione del mondo decisamente (e indiscutibilmente) “fuori binario”, ma anche frutto consequenziale di personali e privati travagli esistenziali che traevano origine da un isolamento (e un disadattamento) che avevano radici nel sociale, tutti elementi che oltre a rendere unica la loro musica, hanno poi contribuito in larga misura a generare molti dei conflitti che li hanno lacerati nel corso del lungo tragitto e sodalizio artistico che i componenti del complesso hanno continuato a fare più o meno insieme, rimanendo uniti “nonostante tutto”, anche se con qualche significativa “variazione” che non ha però inciso più di tanto su struttura e risultato.
Non un’impresa facile dunque approcciarvisi. Ritengo in ogni caso che se capita di incrociarlo, il film sia davvero imperdibile più che per quelli della mia generazione, per coloro che sono venuti immediatamente dopo perché ci ritroveranno senz’altro dentro il clima e le suggestioni di un’epoca ormai “perduta”, ma che ha certamente a che fare con i loro anni migliori e più propositivi, quelli alimentati dalla grintosa speranza di poter cambiare il mondo anche attraverso una nuova sintassi musicale. Non so valutare invece l’effetto che può fare a quelli che il favoloso decennio dei ’70 del secolo scorso non lo hanno vissuto in diretta, poiché c’è anche da considerare (e tener presente) se e quanto è riuscito ad arrivare ed è rimasto dei Ramones, e soprattutto se è stato sufficiente ad alimentare e tenere vivo anche l’immaginario di chi è venuto molto dopo ed è giovane adesso, visto che si tratta di un gruppo talmente particolare che proprio per la sua peculiarità molto speciale e fuori da ogni schema – spesso anche fuori controllo devo dire – non solo è strettamente legato al clima di quel periodo, ma non ha nemmeno mai raggiunto una fama e un successo planetario, rimanendo sostanzialmente un nome certamente di culto ancora adesso, ma più di nicchia (se si esclude una buona fetta degli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra e soprattutto il Brasile) e quindi privo di quella risonanza mediatica mondiale di cui hanno goduto invece altre realtà nate e cresciute nello stesso decennio.
Un successo che invece a mio modesto parere questi personaggi dai più considerati da riformatorio (o addirittura da reparto psichiatrico) avrebbero ampiamente meritato, supportati com’erano oltre che da una rabbia furente, anche da un gusto melodico tutto particolare, e soprattutto da un’indiscussa e genuina autenticità ispirativa, un mix esplosivo che permise loro di inventare un’inedita forma musicale certamente pionieristica e forse non ancora del tutto definita e messa a fuoco (ma non per questo meno suggestiva) con la quale riportarono il baraccone della musica pop alla freschezza di Elvis e di Chuck Berry (Luca Bandirali).
Che dire ancora? Ci vorrebbe davvero un critico musicale capace di trovare le espressioni più giuste per dissezionare il loro indiscutibile talento e renderlo palese fino in fondo. Io purtroppo posso invece parlare solo di ciò che hanno insegnato a me, o meglio ancora, di quello che hanno significato nella mia formazione musicale (e non soltanto in quella), tenendo appunto conto che quando sono esplosi e ne è arrivata l’eco qui in Italia (come sempre a scoppio ritardato), io mi nutrivo soprattutto di altra musica e generi, e che non ero proprio più un “giovane di primo pelo”, visto che avevo già largamente superato la trentina, e che di conseguenza mi sarei dovuto considerare indiscutibilmente “fuori target”. Eppure rimasi folgorato già al primo ascolto dei brani di un loro disco (se non ricordo male era proprio il primo che avevano registrato). Posso affermare infatti che lo scoprirli così lisergicamente creativi, fu un vero e proprio shock per uno come me che forse ero stato trasgressivo in altre scelte, ma che con l’alcol il fumo e la droga non aveva mai avuto dimestichezza se non per sentito dire. Con la loro adrenalinica prepotenza ribelle e un po’ anarcoide, rappresentarono insomma non solo il giusto stimolo che mi aiutò a scrollarmi finalmente di dosso molte certezze borghesi, ma mi fornirono anche la necessaria, energica scossa che mi permise di aprirmi ed accettarmi senza più alcuna reticenza per quello che ero veramente, ed orientare così la mente verso una realtà di vita che finalmente eliminava il pregiudizio (e la schiavitù) del perbenismo ad ogni costo, rendendomi di conseguenza più permissivo e meno intollerante di quanto non fossi stato invece fino a quel momento, il che mi regalava una curiosa sensazione di libertà di pensiero mai provata prima che può benissimo essere definita come una rinnovata voglia di conoscenza aperta ad ogni prospettiva, una sensazione che la visione di questo documento mi ha riportato alla memoria con crudele prepotenza, proprio perché mi ha fatto constatare quanto il passare degli anni mi abbia invece e purtroppo di nuovo inaridito, e quanto sia ritornato ad essere lontano da tanta esuberanza propositiva che ho seppellito così profondamente in un recesso angolo della mia memoria, da rendere quasi impossibile individuarla per provare a ritirarla fuori (e Dio sa quanto ne avrei bisogno!) Per me insomma una rinnovata, grandissima emozione colma di amarezza (e vi assicuro che non si tratta soltanto di “nostalgia” o di rimpianto).
Per dare un senso più preciso e far comprendere meglio le ragioni profonde del rapporto empatico che mi ha legato a questo gruppo che è sempre stato fiero della propria diversità tutt’altro che conformizzata, riporto allora ciò che - riferendosi alla band e a questo film - ha scritto ancora Luca Bandirali (redattore di SegnoCinema e conduttore su Rai Radio 3 di Hollywood Party) perchè con pochi ma significativi concetti è riuscito a dire cosa sono stati effettivamente i Ramones senza che ci sia bisogno di aggiungere molto altro: “pensate a una versione di Freaks di Tod Browning in cui al posto delle sfortunate creature sfruttate dal circo ci sono quattro poveracci del Queens, quattro giovani realmente disadattati che si aggirano nella New York della metà degli anni ’70: un cantante affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, un bassista eroinomane, un chitarrista perso in un delirio militarista e guerrafondaio, e un batterista messo a suonare lo strumento del tutto casualmente”. Ecco e appunto: questi erano (o sono stati) i Ramones fin dall’inizio della loro straordinaria avventura, quattro giovani asociali che avevano una voglia matta di trovare una giusta forma di espressione per raccontare la loro marginalità e, che nell’incontrarsi, si riconobbero subito talmente similari, da decidere di mettersi insieme per suonare. Un gruppo spontaneo di quelli come tanti appunto,ma che riuscì invece ad imporsi clamorosamente all’attenzione generale irrompendo praticamente all’improvviso sulla scena musicale di New York City per sconvolgerne la coscienza e scuoterne le fondamenta con un sound vivacemente crudo, privo di orpelli e quasi disarmonico, talmente naïve insomma da lasciare persino interdetti per la sua dirompente e coinvolgente spontaneità.
Partiti con l’esibirsi nel piccolo e periferico (ma importante per la storia musicale americana) rock club CBGB,che era ubicato nel l’est side di Manhattan al n° 315 di Bowery Street (che è poi il locale dove si fecero le ossa e i primo fans), i Ramones hanno poi avuto nel 2002 (dopo oltre 20 anni di una carriera fatta di dischi e soprattutto di estenuanti esibizioni dal vivo in tour), il riconoscimento e l’onore massimo di venire definitivamente inseriti fra i “grandi” nella Hall of Fame del Rock and Roll Hall of Fame and Museum (in italiano, Sala della Gloria e Museo del Rock and Roll) che si trova a Cleveland, Ohio, indiscusso tempio dedicato alla memoria delle più importanti e influenti personalità (artisti, compositori, produttori, etc. etc.) del mondo della musica, con particolare riferimento a quello del rock and roll, e dove si trovano davvero in ottima compagnia accanto a nomi internazionalmente più conosciuti e famosi di loro, quali Chuck Berry, Elvis Presley, Ray Charles, James Brown, Sam Cooke, The Every Brothers, Fats Domino, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis e Little Richard, ma rispetto ai quali non hanno certamente meno prestigio e diritto d’asilo.
Nonostante i loro oppositori, di strada ne hanno dunque fatta e davvero molta, considerando anche il fatto che le loro canzoni (o canzoncine, come le chiamavano i denigratori) erano pezzi che abbinavano a testi indubbiamente molto forti (soprattutto per l’epoca) e spesso violenti, un sound particolare ed un po’ grezzo, lontano dalle finezze musicali di altri complessi loro coetanei come quello – ma solo per fare un esempio fra i tanti possibili – dei Talking Heads (e a volte anche strutturato su temi immediatamente orecchiabili – da punk-rock, appunto – che hanno retto molto bene all’usura del tempo e che trovavano la loro ragione d’essere soprattutto nelle loro provocatorie esibizioni dal vivo spesso anche ironicamente molto divertenti ma vigorosamente trascinanti, che questa pellicola fortunatamente documenta in parte).
Il film comunque (il cui titolo deriva da un segmento del verso “It's the end, the end of the seventies. It's the end, the end of the century” tratto dalla canzone “Do You Remember Rock’n’ Roll Radio?”) anziché limitarsi a fare semplicemente il racconto dell’ascesa di un gruppo di outsaider, ha l’ambizione di proporre anche un’approfondita analisi indubbiamente ben articolata, su come questo piccolo gruppo di persone decisamente ai margini come provenienza e stile di vita, sia riuscito a farcela, non tanto a diventare una band certamente di culto per svariate generazioni di appassionati, quanto a rimanere invece attiva per così tanto tempo (sia pure con qualche piccolo cambio nella formazione), e questo nonostante le sconquassate storie personali dei suoi componenti mai completamente ricomposte, i successi e gli eccessi, le frizioni, i tic e le manie conflittuali che avrebbero potuto corroderla dall’interno, insieme all’uso cospicuo di droghe che in alcuni componenti rimasero centrali fino in fondo. L’accurata indagine musical-sociologica, cerca inoltre di interrogarsi sulle cause (e i perché) che hanno impedito a degli straordinari musicisti come loro (io sono fra quelli che li valutano così) di conquistare una fama definitiva e imperitura (sinonimo appunto di “immortalità”) o di arrivare a raggiungere (o anche semplicemente ad agganciare per qualche breve tratto) un successo commerciale planetario, o il primo posto nelle classifiche di vendita di Billboard (che magari nemmeno cercavano davvero e che forse per loro significava men che niente).
Indubbiamente sarebbe stato importante approfondire di pari passo anche le ragioni – ben più difficili da mettere a fuoco - che hanno consentito ai componenti del gruppo, pur fra tante pericolose trasgressioni e manie, di mantenersi in vita per così tanto tempo (fino ai cinquant’anni e oltre), ma questo è un rebus (o meglio ancora un vero e proprio rompicapo) che nemmeno il film riesce a districare (anzi proprio per come è strutturato, non solo non chiarisce “il mistero” – se così vogliamo chiamarlo - ma se possibile finisce per infittirlo ancor di più creandoci intorno quasi un alone da “evento inspiegabile”), anche se poi alla fine non tutto è davvero finito in gloria perché nessuno è immortale e le “perdite” ci sono in effetti state anche fra loro, ma solo dopo lo scioglimento definitivo del gruppo: seJoey Ramone (pseudonimo di Jeffrey Ross Hyman che era poi colui che aveva sofferto fin da piccolo di quel disturbo ossessivo-compulsivo a cui accennavo prima) ci ha lasciato più banalmente il 15 aprile del 2001 a causa di un tumore del sistema linfatico, Dee Dee Ramone (pseudonimo di Douglas Glenn Colvin, l’eroinomane bassista e storico compositore del gruppo, che lasciò però anticipatamente nel 1989) morì di fatto proprio per una inevitabile overdose, il 5 giugno del 2002.
Questo quartetto di improbabili rock star piene di talento (lo possiamo definire così? Io credo proprio di sì, e mi riferisco soprattutto alla formazione originale) è stata una band davvero seminale per il punk-rock, ed ha avuto soprattutto il non secondario merito di influenzare il sound musicale di numerosissime formazioni che sono venute dopo, proliferate davvero come funghi, molte delle quali, prive di effettiva gloria.
Grazie poi ai loro frequentissimi viaggi che li hanno portati (senza mai risparmiarsi) ad esibirsi non solo all’interno dell’America, ma anche in gran parte delle altre Nazioni della terra, i Ramones hanno avuto anche il privilegio e la fortuna di creare un vero e proprio collegamento prioritario, affine, e soprattutto di assoluta e totale reciprocità, con tutti i diseredati del mondo in qualunque parte del pianeta fossero dislocati, con i quali si sono sempre dichiarati solidali.
Se un appunto si può fare, riguarda semmai il loro “immobilismo” ispirativo, perché l’evoluzione della band nei suoi 22 anni di esistenza, si può considerare davvero minimale (persino quando sono intervenute delle variazioni nella formazione che di solito qualcosa di nuovo producono). Il gruppo insomma è rimasto sostanzialmente fedele (e staticamente ancorato) alle sue origini, non solo per il suono prodotto, ma anche e per fortuna, per l’energia profusa a piene mani e mai venuta meno, nelle esibizione live, segno di un’aderenza anche emotiva a un lavoro che è rimasto sempre e soprattutto “passione” (i filmati delle loro performances sono ovviamente entusiasmanti in questo senso, ma anche ascoltando i dischi – e parlo soprattutto di quelli registrati dal vivo - si percepisce molto bene questo immenso furore iconoclastico che è stato il segno più riconoscibile dell’intera loro carriera artistica).
Per concludere allora, potrei definire questo appassionato e intuitivo excursus molto sostanziale e senza fronzoli aggiuntivi, diretto ed immediato come pochi altri, una delle più commoventi, toccanti ed avvincenti storie mai raccontate da un documentario musicale (vedi al riguardo le chiarificatrici interviste fatte anche in tempi diversi ai componenti della band, oltre a tutti gli altri contributi , che si miscelano in quel necessario coacervo di pensieri che vanno ben oltre l’aneddotica e forniscono nel loro insieme la sorprendente e necessaria linfa vitale a una imprescindibile “ricostruzione organica” attendibile e piena di pathos come questa.
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