Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Un film contaminato da tormenti psicologici, pentimenti e malanni fisici, a nulla servono se non a dilatare una storia conclusa, incorniciata da interpreti deludenti (Sofia Coppola e Andy Garcia). Si riprende ampiamente nel finale e con delle trame secondarie interessanti. Allo stesso tempo un buon melodramma e uno sgraziato gangster movie.
Sono passati sedici anni da quando lasciammo Michael in preda ai ricordi e al rimorso del fratricidio appena compiuto, incorniciato nella bellissima immagine crepuscolare che fu il finale della seconda parte.
Francis Ford Coppola torna per l'ultima volta alla regia della celebre saga per porre definitivamente la parola "fine" sulla vita del terzogenito della famiglia Corleone.
I primi minuti riprendono la narrazione esattamente dove l'avevamo lasciata, similmente alla precedente pellicola, purtroppo, già in questo piccolo lasso di tempo si percepisce che qualcosa è cambiato: se tra la prima e la seconda parte il collegamento era armonico, quasi fosse naturale una continuazione della storia, in questo caso sembra che Coppola si senta in dovere di ricominciare, di portare avanti una storia che, formalmente, era già conclusa con la solitudine di un capo famiglia solo e pentito con i suoi crimini.
Questa è la più grande pecca del terzo capitolo del "Padrino": una povertà di sceneggiatura unita ad una motivazione più finanziaria che artistica per il ritorno di Coppola e Puzo.
Del libro non sono rimasti che pochi trafiletti, già inscenati nella seconda parte, ora costretti a tornare dettagliamente, ma rimanendo come banali ripetizioni di ciò che è stato già ampiamente detto sulla psiche di Michael.
Ma, anzichè un cortometraggio, a Coppola serviva un lungometraggio, e per farlo ha cercato di aggiungere più materiale possibile, detto in parole povere, col solo scopo di allungare il brodo.
Conseguentemente, questa terza parte subisce un forte distaccamento dai due precedenti capolavori, intuibile anche dallo spettatore alle prime armi: l'inserimento di un personaggio come Vincent Mancini per esempio, totalmente assente nel romanzo e di cui si percepisce la misera caratterizzazione. Non regge assolutamente il confronto con personaggi presenti e passati di questa saga; se poi consideriamo che ciò su cui si fondano questi tre capitoli sono proprio i loro caratteristi, allora siamo in guai seri.
Non è solo l'annessione di nuovi protagonisti a sconvolgere questa terza parte: l'inaspettato cambio della struttura e del progredire della narrazione passa da intrighi mafiosi, sparatorie e agguati che la facevano da protagonisti, al fare da sfondo per il dominante invecchiamento fisico e mentale di Michael. Si perde, così, tutta l'enfasi che dava risalto alle opere precedenti.
Il "Padrino - Parte III" è, dunque, il più introspettivo dei tre, ma al prezzo di stravolgere l'intero corpus narrativo che aveva fatto innamorare in tanti di questa saga.
I parallelismi rimasti, poi, sono decisamente quelli sbagliati: l'indebolimento di Michael era già stato rappresentato nella seconda parte in tempi ben minori e con una potenza espressiva maggiore; il ritorno di Kay è del tutto inutile a fini narrativi se non per ripercorrere gli stessi identici passi dei primi due film e con lo stesso medesimo addio finale; attribuire le stesse somiglianze caratteriali a Vincent Mancini non serve a far altro che a farci rimpiangere l'ira giustificata e la perfetta interpretazione di James Caan, che messa a confronto con la faccia da pesce lesso che Andy Garcia mantiene per tutta la pellicola è senz'altro un grosso rimpianto.
Insomma, le somiglianze sono tante e la loro ricerca ossessiva risulta ben più fastidiosa di qualsiasi stravolgimento.
Anzi, la sottotrama che volutamente si distacca dal microcosmo della famiglia Corleone è più interessante dell'ascesa al potere del fighetto di quartiere Garcia.
Un excursus storico che dovrebbe interessare a tutti noi italiani per le sue tematiche: Coppola esplora quel trittico di potere tra Stato-Mafia-Chiesa tipici dell'Italia del dopoguerra, mettendo in luce possibili complotti e la conosciutissima dipartita di Giovanni Paolo I; il regista si ispira a personaggi realmente esistiti quali Giulio Andreotti, l'arcivescovo Paul Marcinkus, Licio Gelli e tanti altri, per rappresentare concretamente il rapporto di connivenza Mafia-Vaticano.
Di grande memoria storica, al punto che sembra quasi che Coppola più che un film sul Padrino, avesse voluto dirigere una pellicola storica sugli anni di piombo dell'Italia.
Se però, per più di un ora il film era rimasto adagiato sull'umanità di Michael, con una macchina da presa soporifera e un maldestro tentativo di riciclaggio dei forti elementi dei due capolavori precedenti, ecco che Coppola si risveglia dal torpore e assesta i suoi colpi migliori nel finale, rendendoci finalmente il Padrino a cui eravamo abituati.
Primo su tutti, va ringraziato Carmine Coppola, che nel ruolo di compositore sceglie la musica perfetta per una storia a sfondo mafioso: "la Cavalleria Rusticana".
L'opera lirica eccelle, sia per le sue sontuose sonorità che per il significato che ha sempre avuto sull'ideologia ufficiale della mafia siciliana: per un secolo e mezzo, essa è stata scambiata con l'orgogliosa spavalderia e il senso dell'onore siculi; in questo film possiamo vederne ottimamente la differenza in un dualismo tra palco e realtà: nel primo la rappresentazione della Sicilia ormai sorpassata, nel secondo la mafia organizzata, associazione tangibile e temibilmente vasta e amorale.
La colonna sonora accompagna tutta la poetica di Coppola, a cui finalmente il regista dà sfogo con primi piani su volti e oggettistiche significative (un velo nero che ricopre un Cristo morto), un montaggio serratissimo che ancora una volta divide religiosità e omicidi mafiosi: in questi ultimi Coppola libera tutto il suo estro immaginifico per dare vita agli assassinii più violenti e creativi della saga, tra cui l'impiccagione su di un ponte o l'uso di un paio di occhiali come arma bianca.
Tutto termina in un terribile epilogo nel quale il grido di Michael sulle scale del Teatro Massimo vuole rappresentare il lamento dell'uomo che ha perso tutto; scene come questa e quella finale sono fotografate magistralmente dal bravo Gordon Willis, tanto che lo strazio dell'ormai invecchiato don Corleone rassomiglia all'urlo lacerante di Munch.
L'ultima, invece, ritrae un vecchio Michael su una sedia traballante e un paesaggio appestato da un voluto silenzio tombale: è qui che viene meravigliosamente ripresa tutta la fragilità umana, che non lascia scampo nemmeno ad un potente capo famiglia.
L'ultimo capitolo della saga è accettabile, ma non si sogna neppure di sfiorare la grandezza dei due capolavori precedenti. In particolar modo perchè questo non è "il Padrino" che conosciamo.
Da gangster movie si tramuta in melodramma con un cambiamento così drastico che neppure Al Pacino sembra più a suo agio nel ruolo interpretato.
Un film contaminato da tormenti psicologici, pentimenti e malanni fisici che a nulla servono se non a dilatare una storia per lo più conclusa, incorniciata da interpreti deludenti (Sofia Coppola e Andy Garcia su tutti).
Tuttavia, si riprende ampiamente nel meritevole finale e con delle trame secondarie molto interessanti.
Allo stesso tempo un buon melodramma e uno sgraziato gangster movie.
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