Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Ultima puntata (per ora?) della saga mafiosa migliore di sempre, la terza parte del Padrino inizia come il suo capostipite, con una festa. Ma i tempi sono cambiati, e proprio i tempi che cambiano sono il tema fondamentale del capitolo più crepuscolare del trittico, dominato da un Al Pacino che più malinconico non si può alle prese con una ardua impresa: far uscire la famiglia dal pantano criminale. Facile a dirsi, diremmo noi, ormai avvezzi alle faccende di casa Corleone. Certo è che Michael è trattato quasi quanto un dio in terra per le opere di beneficienza messe in campo con la Fondazione Vito Corleone (e qui ci sarebbe da ridere). Ma se è vero che più vai in alto e più il fetore sale, il povero Michael rischia di farci la figura dell’onesto in mezzo a aspiranti padrini di quartiere, vecchi amici che fanno il doppio gioco, prelati più inclini alla cura dei soldi che alla cura delle anime e chi più ne ha più ne metta. Ah, la malavita non è più quella di una volta, meglio riparare nella natia Sicilia, dove tutto è melodramma. Chiave dell’opera è proprio questa battuta del protagonista: come la Cavalleria rusticana messa in scena nel finale, la terza parte del Padrino è un clamoroso melodramma siciliano nostalgico e dimesso in cui i pochi momenti di sangue non sono immediatamente legati al suo antieroe, interessato più alla salvaguardia dell’onore che all’accumulo del potere, più agli affari puliti che alla criminalità organizzata.
Lo stesso coinvolgimento nelle attività di famiglia del nipote bastardo Andy Garcia è tardivo e quasi disperato, anche perché rappresenta una criminalità senza etica e vittima della mitizzazione. Beninteso, di etica Michael non può parlare manco per niente, visto che è ricorrente all’interno del film il ricordo dell’uccisione del fratello, vero e proprio macigno esistenziale. All’epoca il film non piacque assai, qualcuno lo trovò lamentoso, con troppi indugi melodrammatici e un ché di ridondante. Ma è indubbio che sia al di sopra del livello di guardia, se non altro perché pone al centro della storia un personaggio debole, in crisi, scoraggiato come mai s’era visto in un gangster movie, che rinuncia al vizio tradizionale di affidare tutta la propria attività (che in Michael coincide con la vita) al figlio maggiore pur di recuperare un rapporto irrimediabilmente compromesso (Tony ha visto il padre uccidere il fratello), ma anche per tentare disperatamente di far tornare l’amata Kay, che non l’ha mai smesso di amare.
Se probabilmente tutto ciò che concerne la vicenda che rievoca pari pari lo scandalo IOR può risultare posticcio e finanche kitsch (il robusto Raf Vallone, cardinale buono, che sale al soglio pontificio col nome di Giovanni Paolo I, come l’esile Albino Luciani è abbastanza straniante), non bisogna dimenticar che tutto si rivolge alla destrutturazione del mito, quasi a voler sottolineare l’impossibilità di una diversa criminalità cinematografica, la morte del classico e l’annuncio del trucido. Anche la scena finale, con l’autoesilio e la morte solitaria è un simbolo di allontanamento. L’abilità di Francis Ford Coppola è indubbia, ma l’ellittica sezione dedicata alla Cavalleria rusticana con le svariate linee d’azione (tra cui la grottesca sequenza di Talia Shire che spia Eli Wallach, a cui ha donato un cannolo avvelenato) che si conclude con l’uccisione sulle scale di Sofia Coppola vale una patente di regista. Sarà pure sbagliato ed eccessivo, ma ad avercene di film così.
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