Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Fra riconoscibilissimi avvenimenti pubblici e storia privata, si arriverà così con questa ugualmente ottima terza parte della saga, alla sua inevitabile, tragica conclusione in una magnifica e catartica scena sullo scalone d’ingresso del Massimo di Palermo, che è uno dei momenti più altamente drammatici e coinvolgenti dell’intera rappresentazione.
Mi sembra particolarmente illuminate il commento al film dello stesso Coppola (recuperabile dall’edizione in dvd) per comprendere meglio non solo le “ragioni” ma anche il valore e l’importanza de “Il Padrino – Parte III”, a mio avviso di gran lunga superiori a quanto la maggior parte della critica abbia ritenuto di dover (voler) riconoscere a quest’opera arrivata a compimento quasi un ventennio dopo “l’origine della saga” e a ben 16 anni di distanza dalla “seconda sezione”, che rimane il segmento più articolato e riuscito (davvero il capolavoro incontrastato e ineguagliabile, una volta tanto molto di più e di meglio di un banale sequel realizzato sull’onda di un successo anche commerciale di risonanza planetaria), grandioso e “necessario” capitolo integrativo che racconta le evoluzioni malavitose dei Corleone fra politica e storia, introducendoci nella tragica conflittualità di Michael, successore designato e cosciente, costretto a rinnegare se stesso e i suoi affetti per la logica del potere e della “famiglia”, ma arricchendole con i tasselli mancanti della “genesi” che ci fanno comprendere meglio le ragioni profonde di questa inesorabilità di successione dinastica (una predestinazione alla quale è impossibile sottrarsi), attraverso la rappresentazione delle “gesta” del giovane Vito, il patriarca che abbiamo conosciuto “maturo e potente” e accompagnato fino alla sua morte, qui riproposto - emigrante disperato e caparbio già preparato (e disponibile) ad “assimilare la lezione”, dotato di "qualità" così spiccate che gli consentiranno ben presto di superare persino i propri maestri - nel suo apprendistato “feroce” alla conquista del mito americano. Tutto questo, all’interno di una eccezionale ricostruzione di “quell’epoca e quel clima” che ci restituisce l’oggettività della visione, fondamentale per aiutarci a percepire come realisticamente concrete, le agghiaccianti ragioni di una “scelta inevitabile” anche se dolorosa, all’interno della struttura patriarcale di “quella” cupola che ha regole secolari alle quali è impossibile sottrarsi (più italiane che americane per le sue implicazioni imperniate sull’onore, ma anche per le modalità di applicazione pratica, con le sue ramificazioni criminali simili alla gramigna infestante tipiche della mafia nostrana con la quale si intrecciano, compenetrandosi in perfetta simbiosi anche operativa). E i due piani della narrazione risultano così complementari, riescono ad intersecarsi tanto saldamente fra loro, da riuscire davvero a dare già con questa seconda parte, un “senso perfettamente compiuto” a questo insolito affresco di straordinarie proporzioni e a fargli acquisire i connotati di una spaventosa tragedia moderna di dimensioni Shakespariane. Raccontandoci le ragioni (anche di “convenienza commerciale” in un momento per lui “particolarmente difficile” e sofferto) di questo ritardato ritorno sui propri passi, ammettendo il diverso momento storico e anche il suo differente potere contrattuale sul sistema produttivo, Coppola evidenzia persino la necessità indotta di elaborare un “secondo momento” ancora in due fasi, che avrebbe potuto evolversi in un successivo ulteriore sequel se non fosse venuto nel frattempo a mancare Mario Puzo, per presentare e “ricollocare” le gesta dei superstiti della dinastia dopo “la morte di Michael Corleone”. E’ evidente quindi la volontà della “ricerca” - nell’intento di non essere meramente ripetitivo – per provare a modificare il clichè, a cominciare proprio "dall'impalcatura generale" e dare così nuovo respiro all’impresa, proponendoci, più che un “seguito” pedissequo e conforme di un percorso già di per sè compiuto (che avrebbe potuto trovare spazio "evolutivo" solo nella ipotizzata IV parte) “semplicemente” l’epilogo di quelle “due sezioni di una storia” di molti anni prima: dopo i “delitti”, l’inevitabile “castigo” e la “pena”, "sanzioni" queste già ampiamente precognizzate che rappresentano il "pagamento" del tributo per le proprie inadempienze, una "condanna" prevedibile, che acquisisce il senso ultimo (e la dimensione) di una assunzione di responsabilità per le conseguenze derivanti dalle proprie scelte. E allora si presume necessario un “attendibile” quadro storico di contorno per evitare che il discorso diventi una semplice astrazione teorica: se si riproducono le modalità “comportamentali” pur nel differente contesto, per dare un senso diverso e veritiero che giustifichi l’impresa, è indispensabile che queste siano calate (addirittura inglobate) nella “contemporaneità” verificabile di eventi solo all’apparenza di fantasia “ma più reali del vero”,proiettate in uno scenario concretamente “possibile” (non solo realisticamente credibile, ma probabilmente davvero poco lontano dalla “verità negata”, come certi sussurri nascosti, certi ritorni improvvisi di tesi più volte mormorate a fior di labbra e purtroppo mai del tutto provate, possono ancor oggi farci intendere) che non sia solo sfondo, ma anche "azione". Nel film, ecco che allora persino per i personaggi della saga è "inesorabilmente" passato un numero di anni analogo a quello dell’intervallo, i figli sono cresciuti e gli affari modificati di pari passo con i tempi, indispensabili "intuizioni" per non fare sembrare anacronisticamente irreale la differente fisicità degli interpreti storici, ben oltre le apparenze. Adesso siamo negli anni ’70, e lo scenario si presenta da subito analogo ma "anomalo" rispetto al passato (rimangono immutate le modalità comportamentali della “gestione del potere”, ma la ufficializzazione del ruolo è più scoperta e accettata dalle gerachie sociali ed ecclesiastiche). L’azione si sposta sul “destino dei figli” ma è ancora Michael (e non potrebbe essere altrimenti) il protagonista incontrastato, fra ricordi e ossessioni, un Michael corroso dai rimorsi e dalle colpe, schiacciato (ma non redento) dalle responsabilità agghiaccianti dei suoi misfatti per i quali continua a voler ricercare un qualche senso di necessarietà ineluttabile (azioni nefaste, ma inevitabili per la difesa non solo del potere, ma anche dei suoi cari), un Michael indebolito dalla malattia (il diabete che lo porta spesso a crisi che ne mettono in pericolo la vita) che vuole mantenere la conquista “onorabilità “di facciata ormai indispensabile nella nuova logica operativa che vede sempre più "compromesse" (e parte in causa) le istituzioni. Miliardario e “intoccabile”, sa che è arrivato il momento non più procrastinabile di passare la leva del comando e di “riciclarsi”, liquidando per questo tutte le attività criminali del clan e intraprendendo nuovi percorsi che consentano di ripulire definitivamente i capitali accumulati”. Coadiuvato dal nipote (il figlio “tradirà le aspettative” intraprendendo con il suo consenso una autonoma e personale carriera musicale) che sarà il suo “successore” naturale, il nuovo "padrino designato", sceglierà la convenienza di entrare in affari (solo dalla facciata "meno puzzolente, perché più si sale e più il tanfo aumenta”) investendo in una immobiliare europea che fa capo (guarda caso) alle finanze vaticane e della quale vorrebbe assumerne il timone del comando. Tutto questo, sullo sfondo di sanguinosi complotti che trovano specifico riferimento iconografico negli accadimenti italiani del nostro passato recente: gli scandali che travolsero lo Ior, l'Ambrosiano e conseguenti, negli anni a cavallo fra il mefitico pontificato di Papa Paolo IV e il successivo arrivo al soglio Pontificio di Papa Giovanni Paolo I che esprimeva (o sembrava voler esprimere) la volontà purificatrice del rinnovamento, l'assassinio di Calvi, le compromissioni di un “discutibile” cardinale "finanziario" solo recentemente scomparso, ma da tempo “sottratto” dal Vaticano stesso alle leggi degli uomini, l'ombra della P2 e riferimenti specifici a molti altri infidi personaggi connessi con le leve del potere (che noi dovremmo ben conoscere, ma che come al solito abbiamo preferito relegare nel dimenticatoio per tacitare le coscienze spostando le loro "ipotetiche gesta" nel terreno della fantastoria). Il quadro rappresentato è storicamente attendibile, risulta plausibilmente veritiero all’interno di un disegno composito e ben articolato che mette a nudo i meccanismi di una “mafiosità” ben più radicata e complessa che non risparmia niente e nessuno, non le istituzioni laiche, nè tantomeno quelle religiose o capitalistiche, nell’asservimento totale al “progetto” finale” di una devianza che non coinvolge solo l'aspetto economico, ma che rappresenta anche una precisa (e ragionata) scelta ideologica. Fra riconoscibilissimi avvenimenti pubblici e storia privata, si arriverà così alla tragica conclusione in una magnifica e catartica scena sullo scalone d’ingresso del Massimo di Palermo, che è uno dei momenti più altamente drammatici e coinvolgenti dell’intera rappresentazione. L’accusa di “melodramma ridondante” che spesso è stata rivolta a questa "tragedia contemporanea", è invece a mio avviso la giusta chiave di “lettura” che il regista ha scientemente voluto scegliere per la truculenta conclusione "piena di cadaveri" di un percorso che poteva chiudersi solo con una carneficina, fra avvelenamenti e colpi di lupara, quando persino una “figlia innocente” viene chiamata a pagare con la vita il suo tributo di sangue per gli intrighi e i delitti del padre (non a caso è proprio il melodramma, la rappresentazione nel teatro stesso della “Cavalleria Rusticana” cantata nei panni di Turiddu dall’altro figlio “ribelle”, il contrappunto visivo e sonoro che “epicizza” questo lacerato epilogo dai foschi toni elisabettiani) per poi sfumare lentamente, dopo una straziata performance di un Al Pacino come al solito superlativo ("fotografato" nella tragicità assoluta di quel grido rappreso, a lungo senza suono, che erompe straziato fino a lacerarci l'anima, interrompendo improvviso gli interminabili momenti di qell'“assordante” silenzio - una agghiacciante citazione molto emozionale e “appropriata” dell’Urlo di Munch - che la “fissità” pietrifica del gesto stigmatizza come il definitivo atto di "resa", l'acquisizione cosciente della "sconfitta" senza ulteriore possibilità di redenzione), e "scivolare" poi solenne e malinconico verso la morte del protagonista (non a caso ripresa in campo lungo e resa per questo ancora più astratta e anonima) dopo il “turbinare” dei ricordi che, partendo dalle danze con la figlia già viste in apertura, ripropongono quelle con la sposa siciliana anch’essa trucidata e quelle che sancirono l'inizio del legame affettivo con Kay… immagini elegiache, poetiche e avvolgenti che riescono a rendere la sintesi (e il bilancio) di una vita, stemperando nella nostalgia e nel rimpianto la fortissima tensione accumulata. Il “Padrino parte III" si configura quindi come un “tragico, ridondante, affascinante melò” di eccezionale e travolgente forza spettacolare. Per sancirne la validità assoluta e "riconoscere" l’importanza di una regia corposa e decisamente complessa che per molti versi può addirittura entusiasmare, sarebbe sufficiente citare il solo eccezionale “pezzo di bravura” della sequenza conclusiva (ma ci sono moltissimi altri momenti che potrebbero essere ricordati in questo senso) che coincide con l’esecuzione in Teatro proprio della Cavalleria Rusticana di Mascagni (e che ne copre quasi integralmente la durata) nel corso della quale “tutti i nodi” vengono al pettine: anno 1978, Teatro Massimo di Palermo, il resto è cronaca. Il “blocco narrativo” è unico, ma articolato: attraverso un montaggio serrato e senza sbavature, si accavallano e intersecano, alternandosi con continui rimandi, molte linee d’azione (mi sembra 8 se ho contato bene) che si sviluppano non solo all’interno del teatro stesso, ma anche a Roma e dintorni, fra “eliminazioni” programmate, progressive e inarrestabili, che definiscono le responsabilità oggettive della "faida" (con i vari assassinii incrociati che culminano in quello di Calvi e di colui che “rappresenta” Papa Lucani: un’altra scena da citazione antologica potrebbe essere rappresentata dall’assassinio per le scale del Cardinale con il corpo che viene poi scaraventato giù nella tromba, fino a schiantarsi sul fondo, un inarrivabile "pezzo" di grande cinema realizzato con ineccepibile baldanza). Il commento di Coppola – ripeto – è fondamentale anche per capire le ragioni di “molte avversioni” che si sono soprattutto esemplificate nel deprecare la scelta per interpretare il personaggio di Lucy, della figlia Sofia (poi passata con maggior fortuna alla regia), qui al suo esordio in un ruolo oggettivamente impegnativo (l’attrice inizialmente designata era Winona Ryder): i figli sono il punto di maggiore vulnerabilità dei genitori, come giustamente osserva l’autore ed è “colpendo” loro che si opera in qualche modo l’indiretta “distruzione dei padri” quando è a loro che si intende mirare. Così, procedendo in parallelo con quanto viene raccontato sullo schermo (anche se non si tratta ovviamente di "scelta" volontariamete perseguita) l’assonanza diventa addirittura impressionante e degna di riflessione (come non rilevarla?): “sparando a zero” sulla performance non "esemplare" dell’immatura Coppola che rimane il tassello "meno difendibile" all’interno di un cast per il resto impeccabile, che ancora una volta unisce il meglio del meglio con risultati indubitabilmente trascinanti, da Al Pacino a Diane Keaton, da Talia Shire a Andy Garcia, da Joe Mantenga a Eli Wallach, da George Hamilton a Bridget Fonda, da Raf Vallone a John Savage, da Helmut Berger a Franco Citti, si tende ad "annientare" il Coppola stesso, che rimane il vero e primario obiettivo della ingiustificata (ed è ancora un parere personale ed opinabile) campagna denigratoria che ha visto "storcere i nasi" di molti critici solo "disattenti". Riconsiderandola senza preconcetti e pregiudizi infatti, la prova della Coppola mostra certamente inesperienza, ma anche una forte dose di partecipazione emotiva (immatura sicuramente, ma sentita e abbastanza convincente nei risultati, nonostante tutto) ampiamente sufficiente per dare una consistenza “naive” al personaggio al di là delle carenze e a renderlo vitale e credibilmente attendibile. Perchè tanto livore allora? si è visto e si vede anche oggi ben di peggio in giro senza che qualcuno gridi allo scandalo… magari a qualche insignificante “patata lessa” senza espressione e carisma ma alla moda, si elargisce persino qualche “immeritato” premio!! Questione solo di "pompaggio" mediatico, di "sapiente campagna pubblicitaria di sostegno ben orchestrata.." o anche qui si potrebbe parlare di mafia? Per concludere comunque, ogni volta che rivedo questa pellicola (e mi capita di farlo abbastanza frequentemente) io provo inalterati quei forti coinvolgimenti emozionali che ho descritto, che caratterizzano tutto il "cinema" che amo davvero, una sensazione di "appagamento emotivo" che in molti momenti del Padrino parte III diventa straripante, e che nella sequenza finale, si amplifica per "accumolo" in maniera esponenziale, fino ad arrivare alle soglie della commozione. Ce n’è davvero a sufficienza per confermare la positività del risultato: probabilmente meno compatto e coeso dei precedenti due capitoli (sarebbe una evidente forzatura voler considerare questa pellicola priva di difetti)... certamente maggiormente pletorico e un tantino ripetitivo nella enunciazione dei preliminari, anche perchè in maniera diversa "riproduce" in parte un meccanismo già rappresentato, e per questo "noto", resta ugualmente un “magistrale” esempio di alta cinematografia creativa da difendere e salvaguardare (averne di opere così "potenti"!!!!)
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