Regia di Pedro Pérez Rosado vedi scheda film
La wilaya, in questo caso,è un posto che non dovrebbe esistere. Il triste residuo di una brutta faccenda risalente a più di trentacinque anni fa. Era il 1975 quando la Spagna abbandonava il Sahara Occidentale, che fino a quel momento era stato una sua colonia, lasciandolo, di fatto, in balia delle mire espansionistiche di Marocco e Mauritania. In seguito ai venti di guerra, parte della popolazione saharui fuggì in Algeria. Fu allora che, nel sud del Paese, sorsero immensi campi profughi, destinati ad ospitare più di trecentomila persone. L’immenso villaggio di Smara è uno di questi. Una distesa di tende e di case di fango che si estende a perdita d’occhio. È il luogo natale della giovane Fatimetu, che, all’età di dieci anni, è stata affidata dalla madre Selma ad una coppia di genitori adottivi spagnoli. La ragazza è cresciuta a Valencia, ha avuto una educazione di stampo europeo, ed oggi torna a trovare la sua famiglia d’origine. Selma è morta, ma ci sono ancora sua sorella Hayat, affetta da una grave malformazione agli arti inferiori, e suo fratello Jatri, la cui moglie sta per partorire. L’uomo cerca di convincerla a restare, perché c’è bisogno di un’altra presenza femminile per portare avanti la casa. E poi c’è il giovane Said, un suo lontano cugino, che si innamora di lei a prima vista e le propone di sposarla. Per un motivo o per l’altro, Fatimetu, che aveva programmato di ripartire dopo pochi giorni, si ritrova incatenata a quel luogo che credeva non le appartenesse più. Non condivide nulla della mentalità locale e dello stile di vita di quella che, un tempo, era stata la sua gente. È una donna indipendente ed emancipata, che non pensa al matrimonio ed è insensibile ai dettami della tradizione. Eppure qualcosa continua a legarla a quel mondo sonnolento e surreale, sospeso nella storia, dimenticato da tutti. Mentre si guadagna da vivere trasportando merci e persone su una jeep acquistata sul posto, la ragazza si guarda intorno sbigottita, incredula di provenire da quell’angolo di terra in cui nulla sembra voler cambiare, mentre la vita si trascina eternamente uguale a se stessa, in una ripetitività tanto futile e cocciuta da risultare disumana. La regia decide di evidenziare questa innaturale invariabilità partecipando al gioco, forse in maniera un po’ troppo puerile, insistendo su un farsesco tran tran a base di cellulari, automobili e frigoriferi, scontati simboli della civiltà tecnologica, sommariamente contrapposti all’atavico rito del tè travasato da bicchiere a bicchiere. Dentro le sfilacciature di una trama che non avanza, anche i dialoghi sembrano subire l’attrito della sabbia, risultando impastoiati nell’inespressività del paesaggio monocolore, oltre che disorientati dalla mancanza di punti di riferimento. I barcollamenti della regia e le discontinuità del montaggio non aiutano a tenere insieme i pezzi di un racconto che indugia in un incanto sfocato: è invisibile la magia che cattura Fatimetu, e che non arriva a rapire lo spettatore, forse perché troppo sottintesa dalle reticenze distribuite con generosità, ma senza una vera consapevolezza estetica. L’intento di non dire per lasciare immaginare confina l’autore nel ruolo di un osservatore anonimo, che fotografa ma non rielabora, preferendo che l’opera rimanga grezza, incerta e incoerente come un sogno arrancante, appesantito dalla stanchezza e dalla frustrazione di non capire. La crisi di Fatimetu ci appare come un’indefinita miscela di curiosità e rassegnazione, di gusto dell’avventura e sottomissione al destino, ma ci piacerebbe vederci un po’ più chiaro. Invece il fascino di quell’enigma si mantiene ostinatamente spento e muto. Nel finale, l’emblematica chiusura sul non so pronunciato su una duna ci ripropone l’ennesima versione esotizzante del tutto è vano, e intanto in noi sorge il dubbio che lo scopo dell’operazione si sia perso per strada. Il discorso era partito con la meritoria volontà di portare alla luce un doloroso capitolo della storia africana; invece, lungo il cammino, la memoria è naufragata e, con essa, se ne è andata, purtroppo, anche la capacità di guardare con lucidità al futuro.
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