Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Accompagnati dalle note di Nino Rota, dal nero si svela una flebile illuminazione proveniente dalle veneziane dello studio, mostrando il primo piano del viso di un uomo, che chiede con reverenza un favore al boss della famiglia mafiosa dei Corleone nel giorno dello sposalizio della figlia, la macchina da presa con un movimento all’indietro disvela la sagoma di un uomo anziano dietro la scrivania, che accarezza con insistenza un piccolo gattino, il suo volto porta i segni degli anni passati, a costui però bastano poche parole pronunciate con il tono giusto, per trasmettere un’autorevolezza che implica nella controparte un tacito rispetto. La scena di apertura del leggendario del Padrino (1972), segna il pieno inizio della “fase 2” della Nuova Hollywood (1967-1982); dopo il periodo iniziale dove i registi di tasca propria finanziavano i loro film per poi affidarne agli studi la distribuzione, questi ultimi vedendo i profitti in relazione allo scarso budget, nonché la qualità artistica, decisero di inglobare tali cineasti nel sistema produttivo, ma, a differenza dei decenni precedenti, concedendo a costoro carta bianca insieme a cospicue risorse finanziarie, poiché tutti gli studi in crisi da tempo, non sapevano più come intercettare i gusti mutanti del pubblico, ben più recettivo di loro agli enormi cambiamenti nella società americana del periodo. La scelta del regista fu difficile, al nome di Francis Ford Coppola, ci si arrivò solamente dopo i rifiuti dei più prestigiosi Sergio Leone e Peter Bogdanovich, ma nonostante gli screzi del cineasta con la Paramount, in disaccordo sulle scelte di casting (in primis Al Pacino nel ruolo di Michael Corleone e Marlon Brando nel ruolo del Padrino, quest’ultimo considerato un attore ingestibile dai produttori quanto oramai finito artisticamente), sul tono della violenza del film fino al budget produttivo, tutto poi appianatasi, stando ai contenuti speciali del presenti nell’edizione Home Video, dopo la realizzazione della sequenza del regolamento di conti con Virgil Sollozzo nel ristorante; questa unione tra due visioni differenti, alla fine comunque porta ad incassi strepitosi per oltre 280 milioni nel mondo, nonché alla nascita di una vera e propria pietra miliare della settima arte, influente a distanza di decenni nella costruzione delle immagini, nonché delle battute celebri, tra tutte la nota “gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”.
Sicuramente il cast eccezionale di attori svolse un ruolo decisivo nella costruzione di questa epopea mafiosa americana (il miglior cast mai fatto in un film possibile a detta di Stanley Kubrick), cominciando dal leggendario Marlon Brando nel ruolo più iconico della carriera, con cui ritornò, complice anche il successo del successivo Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1973), a rioccupare con pieno titolo il trono di più grande attore del mondo dopo i travagliati anni 60’; ma tutti gli altri volti giovani del film non sono da meno, nonostante l’esiguo curriculum filmico all’epoca di molti di loro, anche se di lì a poco in tanti diventeranno grandi nomi attoriali della Nuova Hollywood e dei successivi decenni. Coppola immerge poco a poco lo spettatore nel mondo della mafia italo-americana, messo in scena dal regista in modo approfondito quanto particolareggiato nella lunga sequenza introduttiva di quasi trenta minuti, con una ricostruzione impeccabile dei rituali del sottobosco mafioso, con le sue caratteristiche e la sua morale distorta sul concetto di “famiglia” (nonché l’ambiguità che ruota attorno a tale parola), dando una rappresentazione impeccabile dei membri della famiglia mafiosa dei Corleone all'indomani della Seconda guerra mondiale, cominciando dall'irruenta testa calda “Sonny” (James Caan), passando poi per “Connie” (Talia Shire) la figlia del padrino che si sposa con Carlo (Gianni Rizzo), il debole ed insoddisfatto Fredo (John Cazale, sempre pervaso da malinconia), il figlio adottato, nonché consigliere della famiglia, Tom Hagen (Robert Duvall), poi c'è colui che con gli affari di famiglia non ha mai ha voluto avere a che fare, Michael Corleone (Al Pacino), fidanzato con l'ingenua Kay (Diane Keaton), una donna che ancora crede in un’America pulita ed onesta, tanto da non prendere mai sul serio neanche una volta i racconti di Michael su certe brutalità commesse dagli invitati al matrimonio di sua sorella ed infine, un campionario di personaggi mafiosi poco raccomandabili, come Luca Brazi (Lenny Montana) , ma anche quel “bonaccione”, per modo di dire, Peter Clemenza (Richard Castellano) e l’altro capo-regime Tessio (Abe Vigoda).
La forza cinematografica del Padrino, risiede nel mostrare esplicitamente il contro-potere oscuro della società, dietro la facciata perbenista e lucente degli USA, infatti la pellicola mostra una mafia che non si limita a corrompere i soliti 2-3 agenti del dipartimento di polizia, ma una vera e propria “istituzione” parallela, che si sia in qualche modo impressa a fondo nel tessuto sociale americano; in sostanza crimine organizzato e politica sono un’unica cosa, dove il malaffare della corruzione governa i meccanismi della nazione. Il ritratto che prende forma, seppur inquietante, risulta per un certo verso ancora confinato in “piccolo”, visto che don Vito Corleone, vive i suoi illeciti ancora su un piano umano-relazionale con la controparte, dove la sua organizzazione pur perseguendo attività illegali grazie a scambi di favori con le autorità politiche, le quali in cambio chiudono un occhio sui business della famiglia Corleone (che a detta del Padrino si limitano solamente ad un innocente gioco d'azzardo ed il pizzo ai commercianti), resta comunque ancorata ad una concezione “familiare”, dove il controllo del territorio passa per il “rispetto” da parte dei piccoli proprietari di attività nei confronti della figura del Padrino, la quale ha sostituito uno stato assente quanto lontano dalle esigenze quotidiane.
Tutto sembra essere in un equilibrio destinato a durare in eterno, ma la seconda guerra mondiale con la sua carneficina umana e la violazione di ogni codice “morale” bellico, ha portato uno scombussolamento dei valori e delle tradizioni sociali quanto economiche, tanto che la nuova generazione poco legata a concetti come la famiglia o fedeltà, è pronta senza tanti complimenti a scalzare la vecchia facendosi avanti. Il primo tra tutti è Virgil Sollozzo (Al Lettieri), produttore di droghe, che vorrebbe proporre al Padrino un affare, le sue conoscenze politico-giudiziarie, in cambio di una percentuale sui profitti. Il Padrino è ben consapevole, che questo nuovo business, gli metterebbe contro i politici, i giudici e la polizia, nonché andrebbe contro le solite entrate economiche della famiglia, per questo rifiuta dando il via a tutta l'escalation del film, sino alla sua conclusione. Sonny è un irruento che pensa di risolvere tutto a suon di atti di forza, mentre Sollozzo, si crede il più furbo, cercando appoggio con i Tattaglia, una delle altre 4 famiglie mafiose, che si spartisce il controllo di New York assieme agli Stacci, Cuneo e Barzini.
Tra irruenza e furbizia della nuova generazione, sarà destinato a trionfare l’ambiguo Michael Corleone, il quale collocatasi inizialmente fuori dagli affari della famiglia, si presenta con un viso angelico quanto innocente, ma la sua è una purezza di facciata, poiché seppur dettasi da sempre disinteressato agli affari della famiglia, in realtà sin dal principio ha uno sguardo lucidamente spregiudicato, celante una freddezza interiore manipolatoria nei confronti dei legami attorno (tema alla base del Padrino – Parte II), tipica di un’ambizione smisurata senza alcun argine, trovando molte similitudini con la figura del principe Hal del Falstaff di Orson Welles (1966), facendone una figura tragica tipica di Shakespeare.
Francis Ford Coppola riesce a costruire un’epopea di tre ore di durata, tramite una regia neo-classica nella forma e nei movimenti di macchina, risultando sempre precisa quanto calibrata sia nelle sequenze violente degli omicidi (su tutti quello celebre al ristorante), sia nella capacità di concedersi piccole digressioni in alcuni gesti quotidiani dei componenti della famiglia Corleone, senza intaccare il ritmo della narrazione, denotando l'attenzione al particolare del regista, come quando Clemenza cucina raccontando a Michael come preparare un piatto da mangiare per tante persone, momento di calma subito spezzato dall'irruenza di Sonny, che vuole invece sapere la conclusione della faccenda con l'autista, contaminando in questo modo di un senso di morte ogni gesto, anche quello più spensierato e naturale, come può essere l’atto di cucinare; una rappresentazione del male quindi più sottile, sfumata, per nulla banale, il che porta a rigettare come infondate il massacro unanime della critica italiana dell’epoca, dove le firme più autorevoli come quelle di Kezich, Grazzini e Moravia, accusarono il film di lacune sul piano dell’analisi sociologica (ma non siamo innanzi ad un docufilm), nonché una certa quanto grossolana fascinazione del male a loro dire, tramite il concetto di “famiglia” di cui don Vito Corleone affabilmente è portatore, però seppur di tanto in tanto l’opera ceda a qualche stereotipo di troppo (la maggior parte delle sequenze ambientate in Sicilia), questo non può intaccare il valore di una pellicola la cui violenza è connaturata in modo giustificato alla costruzione della progressione narrativa, nonché non risulta comunque indulgente o addirittura apologetica nei confronti di una criminalità, che prospera nell’assenza delle istituzioni (che in coerenza con tale impostazione sono poco presenti “fisicamente” nel film e comunque il legame tra i due mondi si percepisce in modo efficace a livello latente). La regia di Coppola regala continue sequenze da antologia del cinema, una più riuscita dell’altra, oltre al già citato inizio nello studio del Padrino, sono da menzionare la famosa testa di cavallo nel letto (ispirata ad un evento della realtà riguardante il casting di Frank Sinatra nel film Da qui all'Eternita' di Fred Zinnemann), il primo omicidio compiuto da Michael Corleone (con tanto di straniamento mentale in primissimo piano, poco prima di compiere l'atto) oppure l'omicidio dei capi delle famiglie rivali tramite il miglior uso di montaggio alternato nel cinema americano degli anni 70’, passando tra il battesimo in chiesa e le singole esecuzioni dei capi delle famiglie rivali; il tutto filtrato dalla magistrale fotografia di Gordon Willis, nell’uso estetico dei neri e delle luci, costruendo dei perfetti quadri “psicologici” dei personaggi, nonché una ricostruzione dell’atmosfera dell’epoca perfetta in ogni singola inquadratura. Strepitoso successo di pubblico ai botteghini, che risollevò le casse di una Paramount in difficoltà, coronando il tutto con ben tre oscar, tra cui al miglior attore protagonista (Marlon Brando), sceneggiatura non originale (Coppola e Puzzo) e un altro a miglior film, perdendo inaspettatamente quello di miglior regia a sfavore di Bob Fosse con Cabaret (1972), ma il giudizio del tempo, renderà tale errore si evidente, ma del tutto superfluo ai fini dell’effettiva caratura artistica dell’opera in questione.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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