Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film
C’è un attimo, in Die bleierne Zeit, in cui si rende chiaro l’approccio estetico che Margarethe von Trotta assume nei confronti della roventa materia narrativa che caratterizza spesso le sue pellicole, ultimo ma non ultimo il contenuto di questo celeberrimo Anni di piombo vincitore del Leono d’Oro del Festival di Venezia. È un attimo, si diceva, che rompe l’ “incanto” dell’assoluto realismo e che, a parte un piccolo numero di notevoli sequenze oniriche, subito trova un significante (un po’ castrante, a dire il vero) nella parola. Marianne e Julianne stanno parlando attraverso il vetro divisorio delle visite, nel carcere in cui la prima è rinchiusa, e improvvisamente i loro volti si fondono nel vetro, quello di Marianne e quello riflesso di Julianne: un attimo di improvvisa metamorfosi che rivela l’assoluto desiderio di simbiosi e di empatia che Julianne desidera, e che sembra non essersi mai realizzato a causa delle infinite differenze fra le due sorelle. Mentre non si capisce davvero, per alcuni secondi, chi si sta guardando in quel volto ibrido, Julianne distacca il suo volto da quello di Marianne, “non riesco nemmeno più a distinguere il mio volto dal tuo”, pronunciando dunque questa frase che in qualche modo dimezza il fascino figurativo quasi simbolico che il film potenzialmente assume in quella scena, e che viene presto stroncato dall’incredibile ostinazione, cupa e disillusa, con cui la von Trotta indaga l’intimo di questi due profondissimi personaggi, interpretati in maniera eccelsa da Barbara Sukowa (Marianne) e Jutta Lampe (Julianne). L’aspetto più interessante di una pellicola che rimane ancorata ai suoi tempi, ma sa conservarsi integra e apprezzabile fino ad oggi grazie alla presentazione precisa e accurata dei suoi protagonisti, è il suo riuscire a inquadrare nel profondo gli animi delle due sorelle lasciando il compito della contestualizzazione al titolo, tanto che chi, come chi scrive, non sapesse nulla del film se non che ha fatto a suo modo epoca, nel lontano 1981, certo rimane poi esterrefatto da un siffatto intimismo e sensibilità con cui Julianne e Marianne ci vengono offerte dalla regista tedesca.
Mentre gruppi di estremisti di sinistra seminano il terrore nella Germania dell’Ovest, Julianne cerca di tirare avanti con il suo lavoro di giornalista, finché non giunge nella sua casa il cognato, marito di Marianne, sorella di Julianne. Egli consegna a Julianne il figlio suo e di Marianne, Ian, bambino silenzioso e timido, su cui lo sguardo della von Trotta si sofferma volentieri, a inizio e fine pellicola, come a trovarvi incise sul volto le conseguenze dei disastri politico-sociali della generazione dei suoi genitori. Non appena giunge la notizia del suicidio del cognato, Julianne si rivolge a Marianne, socialista militante, che apprende sconvolta la novità ma non per questo accetta di avere il bambino, considerando il fatto che è ricercata e conduce una vita sregolata e assai scomoda. Julianne fa in modo che il bambino venga adottato, ma la sua vita riceve un ulteriore sconvolgimento quando Marianne viene trovata e arrestata.
Margarethe von Trotta presenta Julianne come donna alternativamente fragile e forte, dalla volontà prorompente ma come stanata dal rapporto conflittuale e contraddittorio che ha con la sorella, dal canto suo orgogliosa e ribelle, fin da giovane dotata di un carattere vivace e rivoltoso, ma anch’ella incredibilmente debole a causa delle terribili insoddisfazioni che riceve dalla Storia (quella “pattumiera” che come dice un giornalista, nel film, è piena di quelle notizie che ai lettori non interessano più). Julianne vede in Marianne la concretizzazione di pensieri politici e sociali che lei non ha il coraggio di attuare e portare avanti in maniera violenta; il suo desiderio di borghesizzazione entra troppo frequentemente in contrasto con questo suo lato nascosto che cerca sempre il confronto con la sorella, fino al punto in cui l’affetto che prova evidentemente per Marianne diventa quasi un’ossessione, una punizione, se non un ammonimento su ciò che non fa. Il periodo storico urla costantemente sullo sfondo, anche nei momenti più silenziosi (l’immagine della finestra che dà inizio al film), e la semplice idea di progresso o di eventuale miglioramento futuro si autodistrugge inesorabilmente con la blanda inanità con cui tutto viene condotto, quella grossa noia esistenziale cui Julianne non riesce a rispondere, e cui Marianne risponde con la lotta armata.
I flashback che la von Trotta decide di inserire per illustrare al meglio il rapporto fra le sorelle hanno un sottilissimo ché di superfluo, ma assumono una discreta importanza quando vanno a definirsi i rapporti con i genitori, un padre inflessibile e borghese che dall’alto del suo pulpito richiama alla normalità una figlia (Marianne) che già da adolescente richiede a suon di lamentele la sua emancipazione, e una madre fin troppo immobile e assente, messa in ombra dal marito e incapace di assumere una propria indipendenza. Nonostante questi esaltanti (ed esaltati) ritratti femminili, la von Trotta non ha interesse a promuovere idoli femministi di facile acchito, soprattutto perché non sciorina idealizzazioni che possano dividere men che meno manicheamente i personaggi tra buoni e cattivi (ed eventualmente tra donne e uomini). Così come il padre assume delle pose decisamente biasimabili (il che rende tutto ancora più problematico: da dove arrivano le ignote ragioni del volersi bene fra familiari?), il fidanzato di Julianne è un personaggio decisamente positivo, che non resta a guardare l’oblio apparentemente inoffensivo in cui sta scivolando la fidanzata, ma prende posizione desiderando il meglio per lei e per la loro vita di coppia (lui criticando spesso ironicamente Marianne che non è in grado di chiedere per piacere, ma dà sempre ordini).
Il risultato di tale costruzione psicologica dei personaggi è un film, Die bleierne Zeit, di notevole fattura in termini contenutistici, e senza grosse novità dal punto di vista estetico (un’adesione alle tematiche, che arrivano forti e chiare, cui la von Trotta ci ha sempre abituati), fatta eccezione per alcune immagini verso il finale, in cui il montaggio si fa sempre più serrato, aumentano le ellissi violente e improvvise, e il contorno della Storia sbiadisce e perde significato di fronte ai grossi laceranti drammi di alcuni, particolari, esseri umani. Vibrante, spesso, di emozione, Anni di piombo ha l’eccezionale pregio di far dimenticare allo spettatore di stare vedendo un film.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta