Regia di Kimble Rendall vedi scheda film
Nella mia personale classifica dei film de-generi de paura, ramo: natura contro, i pescioni zannuti e assassini vengono subito dopo i coccodrilloni e subito prima dei serpentoni . Logico quindi che inforcati gli occhialini da nerd 3D abbia ripassato mentalmente la filmografia degli abissi gravidi di teròre dal capostipite Lo squalo di Spielberg in poi e mi sia catapultato con gioia fanciulla a godere delle frattaglie subumane masticate da questo squalone imprigionato suo malgrado tra le corsie del 3x2 di un centro commerciale allagato da uno tsunami. L’offerta speciale del giorno, ragazzetti pancia piatta e dall’espressività ad impatto zero. Al corso di recitazione sul Metodo Stanislavskij sarebbero ora alla rappresentazione dell’attaccapanni in corridoio. Ma va bene così, involucri di carne e pixel e il divertimento è la mattanza. Il sangue. Le frattaglie. La sfiga dei deboli. Il coraggio dell’eroe di turno. La tettona in maglietta. Bagnata. Lo humor nero. E i pescioni che sprizzano insolente malvagità da tutti i pori. Cosa c’entra questo film con il già citato Lo squalo di Spielberg? Nulla. Nulla di metafisico, il terrore dell’ignoto viene spazzato via con la cura 3 D in modo da deragliare lo sguardo verso l’orrore più iperrealistico possibile. Dello squalo si vedono anche le carie.
La domanda: è questo un bel film? Risposta: NO. Come non lo è nessuno dei film che trattano di coccodrilloni, squaloni e serpentoni. Altra domanda: è un bel film Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul, immoto vincitore del festival di Cannes due anni fa? Risposta: NO. L’estremamente tamarro chiude il cerchio con l’estremamente autoriale per l’esasperazione delle rispettive componenti a livelli di masochismo incomprensibile per lo spettatore medio, quello che viene comunemente chiamato: il pubblico. Lo sbrano di arti e parti dell’uno collima con l’effetto sfrangimaroni dell’altro. Questi film non hanno pubblico, hanno appassionati. Gli uni riversano verso l’exploitation gli istinti bestiali, gli altri implodono verso il sé più intimo un onanistico nulla gravido di senso. Entrambi i film vanno visti con salvifico pregiudizio negli occhi, con la cultura necessaria a comprenderne i meccanismi narrativi – o antinarrativi sovente – sapendo già che entrambi andranno ad arricchire una nicchia di conoscenza, esclusiva, privata. Nerd in un certo senso. Ed in entrambi i sensi.
Il film. Lo squalo ai tempi della crisi. Che l’horror sia metafora del tempo corrente è ormai dato di fatto. E questo squalone tra le corsie di supermarket – il consumismo che divora le carni - dopo uno tsunami – la natura si ribella contro la degradante follia anti ecologista del genere umano – è metaforona facile facile. Poi tutto finisce li e l’azione prende il sopravvento nel più logico accumulo narrativo secondo i canoni del genere. Caratteri tagliati con l’accetta, due righe di scambi verbali sul background dei personaggi così da distinguerli dai trasferelli per spessore emotivo a parte una singolare performance di Julian McMahon, già eroe della serie TV Nip&Tuck. Eroismi casuali motivati solo dall’esigenza di far avanzare la mattanza e una strana predisposizione degli squali (sono due che si aggirano in cerca di offerte speciali) a divorare cristiani in ordine di antipatia decrescente. I cattivi muoiono e i buoni si salvano. Quello che non si salva è la gestione della tensione, poca. Le poche idee non sono supportate neppure dal gore che è risicato e innocuo. Poca anche l’ironia delegata soprattutto alla coppietta di fidanzatini minus habens rinchiusi nella macchina con il parcheggio allagato e lo squalo che cerca di entrare per fare una cosa a tre. Strappano qualche sorriso ma nulla più. Tutto sommato un’occasione sprecata per il primo film treddì aussie, sospinto dalle cronache di surfisti periodicamente dilaniati da squali in avanscoperta nei bassi fondali delle spiagge australiane. In questo film latita il divertimento, si prende un po’ troppo sul serio per rinnovare l’epica dei mangiatori di uomini. Tutt’altra cosa era il coloratissimo e cafone supersplatter di Alexander Aja, Piranha 3D, che puntava sulla carnazza di tettone siliconate e tutto ciò che c’è dentro. In questo caso il regista Kimble Rendall strizza l’occhio a Spielberg e alla paura dell’ignoto, alla claustrofobia e ad un non tanto velato messaggio ecologista, che non guasta mai. Purtroppo non ha ne’ i mezzi ne’ le capacità per rinnovare lo sguardo dello straordinario capostipite e neppure il coraggio per affondare le mani nelle frattaglie finendo così nel limbo dello stravisto. Ah, dimenticavo. Il 3D come da tradizione non serve ad una cippa. Peccato.
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