Regia di Marc Forster vedi scheda film
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul blocco creativo che connota la produzione hollywoodiana si avvicini pure a questo World War Z con fiducia. Sono zombi per famiglie. Lo zombi è tornato prepotentemente in auge da qualche anno a questa parte. Anzi a ben vedere non è mai stato affossato del tutto, adagiato comodamente su metafore economiche, sociali, ecologiche, sulla carne non morta dello zombi sono state incise decine di storie che hanno fotografato la complessa realtà contemporanea.
In realtà in World War Z si parla di zombi con sospetto, anche a livello diegetico gli stessi personaggi dicono che forse sono zombi, non morti e risorti . Insomma, non si sa cosa siano, i mostri. Ma l’iconografia di questo mostro di massa è radicalmente diversa dallo zombi post classico di Romero, più aderente agli infetti di 28 giorni dopo di Danny Boyle e in minima parte al reboot di Zack Snyder di Dawn of the dead (2004) con i dipartiti corridori. Cosa che fece scalpore, allora. Lo zombi di Romero ciondola. La sua forza è nell’inedia ottusa e condivisa con una massa di simili, fagocitanti , inerti e consumatori.
La realtà della società dei consumi fu fotografata in modo sublime. Ciondolano anche i non morti di Walking Dead, serie TV di culto prodotta da Frank Darabont che non faceva sconti in fatto di drammaticità e profusione di sangue e viscere. Come dovrebbe essere.
Lo scarto tra ciò che l’industria del cinema mainstream americano e le Tv via cavo producono sta tutto nel coraggio con cui vengono affrontati temi scomodi – la pestilenza planetaria, caposaldo del filone post apocalittico – e dalla loro rappresentazione a livello visivo.
Zombi politicamente corretti , esangui, rabbiosi, confusi in una massa digitalmente caotica così da stemperare le asperità di una visione orrorifica poco adatta al grande pubblico, quelli di World War Z.
Gli zombi mordono ma non per cibarsi dei resti della società civile, ma per diffondere il virus che li ha infettati. Anche se di sfuggita si vede un gruppetto di ritornanti che pasteggiano con un corpo umano, forse atavicamente memori di essere antropofagi. Cosa che si perde subito nel caos e viene rimossa.
La storia principale è quella di Gerry Lane (Brad Pitt), ex investigatore delle Nazioni Unite che si separa dalla famiglia durante l’invasione di infetti, viene mandato in giro per il mondo a cercare una cura e brama con tutte le forze di ricongiungersi ad essa. Il resto è un action on the road in vari luoghi del pianeta – Gerusalemme, Corea, Scozia – seguendo piste labili e riuscendo ad uscire dalle situazioni più intricate tra cui un incidente aereo causato dall’infezione che si propaga a bordo.
World War Z tratto dall’omonimo romanzo di Max Brooks, gran figlio di Mel, e sceneggiato da più coppie di mani - Matthew Michael Carnahan, Drew Goddard e Damon Lindelof – cosa che non è assolutamente garanzia di qualità, punta sulla visione del caos, nella prima parte. L’abbondante computer grafica supporta le distruzioni delle città e soprattutto l’orda scomposta dei non morti che si muove come uno tsunami, confondendo facce e corpi in un unico magma distruttivo.
Tradotta sullo schermo come un film di guerra , la prima parte scivola via tra inseguimenti e aggressioni, montate in modo frenetico, supportate dagli effetti sonori – il gorgoglio e il ringhio dei non morti – piuttosto che da quelli visivi.
Sembra un capitolo della saga di Bourne piuttosto che un film di zombi. La retorica monta come l’edera sui muri, appiccica ogni sguardo di Pitt al ricordo della famiglia.
La moglie dell’eroe moderno fedele e solidale è della bellezza anticonvenzionale delle rosse naturali. Come dire: anche se Brad Pitt è un figo pazzesco, sceglie la bellezza con l’anima piuttosto della stragnocca epocale. Tutto il contrario di quello della vita reale dove la coppia glamour Pitt –Jolie fa scuola, ma ormai il problema dei super divi - super esposti, non più protetti come dal passato dalla cortina di fumo che distingueva il mondo dei sogni dalla realtà, è quello di identificare il personaggio con il divo. E di fare confronti che vedono sempre il personaggio soccombere alla statura del divo, se il film non è diretto con manico e il personaggio scritto veramente in maniera originale. E qui non lo è.
Le facciotte contrite di Pitt, seppur bravo, non sopperiscono ad una sceneggiatura rimaneggiata, tirata via.
Pitt anche produttore con la sua casa di produzione Plan B, è sempre pettinato benissimo – da fico – anche quando scampa ad un’orda di putrefandi ex umani o ciondola ferito dal seggiolino dell’aereo sventrato dal disastroso atterraggio.
Se la prima parte del film è connotata dalla velocità – la narrazione procede per strappi, gli zombi corrono come matti, il montaggio è da videoclip - la parte finale ambientata nel laboratorio ove si compie il destino dell’eroe che trova la cura – o palliativo – per contrastare la zombite, è più introspettiva e richiama alla mente i meccanismi dei survival horror dei videogiochi. E a ben vedere come un videogioco è strutturata l’intera operazione, su livelli, prove, location.
Soprattutto manca una metafora forte da appiccicare al mostro, si accenna alla denuncia ecologista, uno sproloquio di un virologo sulla natura occupa cinque minuti buoni con la faccia attonita di Brad Pitt che replica quella degli spettatori in sala (più treddì di qualisiasi treddì) ma poi basta. Lo zombi non ha nessuna valenza metaforica e non è estremo nella sua rappresentazione.
Nulla di che, anche se non è una catastrofe – si è visto ben di peggio in passato – , in regia Marc Forster compie il minimo indispensabile per guadagnarsi il cestino, alcuni momenti sono anche discreti e si passano due ore leggere. Ma questo è il peccato principale di questo film che non centra il bersaglio appieno non riuscendo a rendere drammatica la vicenda , puntando solo sul ricattino emotivo e un impianto visivo tanto sontuoso quanto disinnescato nelle sue potenzialità puntando un’estetica in computer grafica evidente, tronfia e tale da non permettere altro che sgranocchiare pop corn in allegria.
Nulla di disturbante, chi deve morire muore, chi si deve salvare si salva. Si salva anche Pierfrancesco Favino, capitato chissà perché in questa produzione mainstream, che fa il capo laboratorio con la fissità di chi è più incredulo di essere nel film piuttosto che vittima di un’invasione di zombi. Concede un momento di pausa drammatica nel confronto con Pitt, poi si avventura nella fisicità e qui il suo fisico da plantigrado teatrale non lo aiuta. E’ purtroppo goffo, non convinto, ingombrante.
Meglio i primi piani rassicuranti dei canonici film italiani.
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