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Lovelace

Regia di Rob Epstein, Jeffrey Friedman vedi scheda film

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La recensione su Lovelace

di scapigliato
8 stelle

La grana grossa con cui Rob Epstein fotografa la vita dura e cruda di Linda Lovelace tra i ’60 e i ’70, concentrandosi soprattutto tra il 1972 di Deep Throat e il 1974 di Deep Throat II, ci aiuta fin da subito a concentrarci sul fattore estetico del film, della storia e di tutti i suoi personaggi.

La messa in scena di uno sfarzoso teatrino domestico a luci rosse con tanto di capi di abbigliamento rigorosamente d’epoca, pettinature improponibili per tutti gli attori coinvolti, design e arredamento che trasudano barocche eredità seventies, è l’art decoration di un palliativo erotico calibrato sul feticismo di un’industria nascente, la pornografia, che già al suo battesimo autoriale ne canta la decadenza filosofica e sociale.

Le grandi ambizioni artistiche di un settore regolarmente bacchettato dal moralismo, che ha sostituito il rock’n’roll nella rappresentazione del demonio nel XX secolo, si infrangono come spuma bianca sugli scogli della realtà più bieca e capitalista. Dal sadico e opportunista Chuk Traynor fino al mentore del porno americano Hugh Hefner, passando per il produttore Anthony Romano, fintamente interessato al lato umano di Linda Lovelace.

Se la regia di Epstein a volte scivola nel didascalico il film resta complessivamente degno del precedente Urlo (2010) e ci regala alcune sequenze madri, soprattutto all’inizio della pellicola, giocando con inquadrature, colori e linguaggio direttamente ispirati dalla pellicola diretta da Gerry Damiano nel 1972. E se questo non bastasse, sono le performance tutte dei grandi nomi chiamati a comporre un cast interessante sulla carta quanto efficace sullo schermo.

Amanda Seyfreid è la più bella e dotata attrice americana del momento. Batte la Green e la Johansson in bellezza e freschezza scenica. La sua presenza all’interno del quadro è sensibilmente percepibile. Con i suoi grossi e disarmanti occhi tondi calamita a sé ogni sguardo; con i suoi prosperosi seni disturba la scena erotizzandola; col suo folgorante sorriso ci masturba la fragile psiche. Attrice non per diletto, bensì per vocazione e tensione artistica, la Seyfried interpreta il suo ruolo più coinvolgente e difficile, ereditando dalla stessa Lovelace tutto il maledettismo del personaggio.

Il film, poco applaudito dalla critica e snobbato dal pubblico, è in realtà una rassegna barocca e strepitosa di caratteri ambigui e strabordanti. Non solo la mite Seyfried dà anima e soprattutto corpo ad un’icona incontrastata della libertà sessuale, osannata e crocifissa in un martirio ingiurioso e osceno dall’America puritana di allora, ma ogni altro membro del cast, compresi i cameo più brevi e indolore, compongono un affresco credibile e di alta razza attoriale. Solo il cooprotagonista, Peter Saarsgard, non è il volto giusto. Forse ci sarebbe stato meglio un Sam Rockwell o anche un Brad Pitt o un Johnny Depp, o forse meglio ancora un Fassbender lanciato. Purtroppo il suo Chuck Traynor non mi ha convinto come invece hanno fatto tutti gli altri. Da un Adam Brody improbabile Harry “Dick Long” Reems, attore ampiamente sottovalutato – non valutato sotto – qui in gigionesco spolvero; alle comparsate di Eric Roberts, James Franco più piacione del solito, di un glaciale e rassicurante Wes Bentley e di Hank Azaria, Bobby Cannavale, Chloe Sevigny e Juno Temple.

Su tutti loro sventolano i genitori di Linda Boreman alias Lovelace, interpretati da Robert Patrick e Sharon Stone. Il primo si toglie definitivamente la maschera robotica di villain immortale e recita a nervi scoperti per straziarci con un’interpretazione carica di dolore, mentre Sharon Stone pressoché irriconoscibile è strega e madre e quindi donna di grande tempra, incartapecorita dal tempo e dall’etichetta, ci regala sguardi che non ti aspetteresti ed una recitazione sottrattiva che lascia senza fiato.

Le varie performazioni attoriali sono qui impiegate da Epstein come fulcro narrativo. Lovelace è dopotutto un film di caratteri più che un mero biopic; e nella parabola dantesca vissuta dalla sua protagonista non c’è moralizzazione dell’atto sessuale né condanna del mondo pornografico, bensì viene condannato l’uso commerciale del proprio corpo e dell’atto sessuale, tradendo così lo spirito ribelle e tutta la carica sovversiva della rivoluzione sessuale.

Se non siamo di fronte a un capolavoro poco ci manca e se gli scivoloni di regia, i didascalismi, l’imperfezione del protagonista maschile e qualche ipertrofia estetica possono aver compromesso il film agli occhi del pubblico, resta imprescindibile l’importanza della causa che fa il paio con What’s Love Got to Do With It (1993) e amplifica la questione a tutt’oggi irrisolta dei femminicidi e delle violenze usate sulle donne, la loro mercificazione e subalternità al fallocentrismo impotente del sistema maschile occidentale come orientale.

Il bigottismo cattolico della famiglia Boreman con il suo “che dirà la gente se…?”, ben realizzato dalla regia nella composizione delle scene e nella direzione degli attori, condanna la giovane Linda alla paura del fallo spingendola di conseguenza verso l’adorazione del totem maschile pur senza volerlo davvero, per poi finire a ripudiarlo e accusarlo pubblicamente per riscattare la sua immagine di donna, madre e moglie.

Se Deep Throat nel 1972 rese celebre la giustamente famosa fellatio al Dottor Young e portò al cinema migliaia di spettatori proponendo uno spettacolo unico per l’epoca che spaziava dalla pornografia alla commedia brillante, dal taglio sociale alla sperimentazione linguistica, creando quindi un culto intorno alla sua protagonista, il Lovelace di Epstein rende sì omaggio alla pellicola di Gerry Damiano, ma non alla fauna umana che l’ha circondata, dipingendo gli uni come imbecilli burattini senza palle – Harry Reems, Chuck Traynor, Butchie Peraino – e gli altri come meschini parassiti – Anthony Romano, Hugh Hefner.

E resta infine e su tutto, il fascino spiazzante di Amanda Seyfried che brilla della stessa luce e innocenza di Linda Lovelace.

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