Regia di James Franco vedi scheda film
Volere non è sempre potere. Questa prova dietro la macchina da presa del trentenne James Franco, già eroe di 127 ore, cerca nel bianco e nero un carisma fotografico che, disgraziatamente, è distante anni luce dalle capacità di questo giovane regista/sceneggiatore. E intanto mette involontariamente in pratica la paradossale provocazione a suo tempo teorizzata dal cineasta francese d’avanguardia Isidore Isou: ovvero il cinema discrepante, il cui contenuto è interamente affidato alla parola, mentre la parte filmata è un commento di sottofondo, slegato dal contesto e del tutto irrilevante. In questo sedicente biopic sulla breve vita del poeta americano Harold (Hart) Crane (1899-1932), il testo, letto da una voce fuori campo, è un improvvisato collage di brani tratti da fonti originali (lettere ed opere dell’autore, tra cui Voyages, To Brooklyn Bridge e The Broken Tower) interrotto da lunghi silenzi, a loro volta intervallati dalle note del Dona nobis pacem che si canta nelle messe, da brandelli jazz, e da altri pezzi musicali di varia natura, dal Bolero di Ravel alle canzoni dei mariachi. A ciò fa da accompagnamento una successione di riprese insulse e apparentemente casuali, realizzate senza il benché minimo piglio artistico, che spesso ritornano con inspiegabile monotonia sulle stesse insignificanti situazioni: Hart che balla in un locale o viene preso a botte, Hart che non sa usare la macchina da scrivere, Hart che fa l’amore, Hart che cammina per strada, attraversando ponti e salendo o scendendo le scale, sempre allo stesso modo, a New York, nei Caraibi, a Parigi, a Città del Messico. Dalla massa inerte di questi improvvidi cimenti registici si staccano solo singoli momenti, che fanno pensare ad altrettanti tentativi di imitazione dello stile altrui: un incipit nostalgico-intimista che ricorda vagamente Last Year in Viet Nam, opera prima di Oliver Stone, una bizzarra intervista rilasciata da Hart mentre è sdraiato su un letto, accostabile al realismo pop di Andy Warhol, un bacio gay in biblioteca che forse allude al casto erotismo delle istantanee di Henri-Cartier Bresson. Emblema del citazionismo disorganico e imbelle di questa pellicola sono gli undici minuti filati in cui Hart, immobile davanti al pubblico di un circolo letterario, legge (legge, non recita) le sue poesie My Grandmother’s Love Letters e For the Marriage of Faustus and Helen, per un totale di 162 versi declamati di seguito. Questo film, in definitiva, è un insieme di pose maldestre che inseguono ottusamente un effetto solo lontanamente intuibile: un obiettivo lirico e drammaturgico che è lasciato alla nostra generosa immaginazione, e che, nella realtà, è destinato a restare un remoto miraggio. Un fallimento della forma che è tragicamente circondato dal vuoto della sostanza: The Broken Tower pretende di raccontare una vita azzerando i dialoghi e l’azione, e rinunciando ad ogni contenuto informativo, ogni contestualizzazione storica, ogni caratterizzazione psicologica. Minimalismo ed ermetismo si aggregano in maniera inopinata, dando luogo un handicap linguistico che uccide l’espressività e perpetua la noia. Questo film merita di fregiarsi di una singola stellina non perché sia pessimo, ma perché è semplicemente nullo.
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