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Warm Bodies

Regia di Jonathan Levine vedi scheda film

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La recensione su Warm Bodies

di scapigliato
8 stelle

Warm Bodies è spassoso. Breve, solido, compatto, pieno di ritmo e di ironia, il film diretto da Jonathan Levine è la miglior metafora zombesca dopo George Romero. Innanzitutto non è una parodia, e non è nemmeno una teen comedy innestata sullo zombie movie. Warm Bodies è un vero e proprio film sui morti viventi, di cui non perde nemmeno il taglio orrorifico – anche se limitatamente alle prime sequenze –  solo che invece che essere cupo, disperato e mortifero è ironico, colorato, avventuroso, sentimentale e positivo.
Tra i morti viventi di Romero e quelli di Levine c’è un’orda di pellicole che nella maggior parte dei casi porta avanti il mito romeriano con alcune variazioni sul tema. Tra l’autoriale e il blockbuster, tra l’erotico e l’esistenziale, solo in tempi recenti lo zombie movie ha conosciuto un filone brillante – L’alba dei morti dementi (2004), Zombieland (2009), Juan de los muertos (2011) – che con Warm Bodies si arricchisce del nuovo trend dello young-adult movie che accosta l’urban fantasy al paranormal romance sulla scia del successo (?) della Twilight saga. La lettura abbastanza semplificata – l’amore può vincere la morte e cambiare il mondo – che passa il film di Levine è in realtà la sintesi diretta ed esplicita senza giri sofisticati e autoriali di un concetto importante di cui si fa veicolo l’immaginario zombesco.
I morti viventi di Warm Bodies sono cadaveri deambulanti, lenti e apatici, affamati di carne umana e soprattutto del cervello umano che infonde loro ricordi che non hanno più. Non dormono, non sognano, non hanno freddo, non sentono dolore. Sono zombie. Né più né meno dei loro predecessori storici, politicizzati dalla fervida mente di Romero che li ha resi la più felice icona dell’uomo moderno consumistico. Ma quando il cuore del giovane zombie R riprende lentamente a palpitare per una combattiva ragazzina di città, figlia del Presidente che dà la caccia ai morti viventi, succede qualcosa di epocale. Gli zombie, R prima di tutti, riprendono a sognare, iniziano ad articolare vere conversazioni, sentono il bisogno di riavvicinarsi agli umani non per divorarli, ma per conviverci di nuovo. Il loro cuore prende a battere, e questo non piace agli Ossuti, gli zombi in fase terminale, voraci e cattivi come dei veri mostri, e soprattutto iniziano a sentire freddo se piove e a sanguinare se feriti. La trasformazione in umano è completata.
L’elemento chiave che differenzia gli zombi di Levine da tutti i precedenti è proprio questa trasformazione – accennata in La terra dei morti viventi (2005) e ripresa satiricamente in Fido (2006). Dalla addomesticazione di uno zombie fino alla sua completa guarigione e reintegrazione in società il passo è notevole e questo significa, nonostante la provenienza bassa dell’idea originale – il romanzo teen di Isaac Marion – che anche un prodotto semplice, breve, destinato ai ragazzi possa contenere elementi interessanti e di una certa carica eversiva. Andare contro le regole dei padri, trasgredire alle leggi che sostengono una comunità, soprattutto se in stato d’assedio, sovvertire i concetti di giusto e sbagliato conosciuti e accettati fino a quel momento, sono gli aspetti che escono da una lettura non necessariamente alta e difficile di War Bodies.
Unica pecca, dovuta probabilmente al target giovanile – ma è solo una paturnia dei “vecchi” censori – è la totale castrazione dell’elemento erotico. Sarebbe stato interessante se il corpo cadaverico di Nicholas Hoult, bravo e credibile nel ruolo non facile di uno zombie autoironico, riprendesse a dare segni di vita anche attraverso il risveglio letterale, leggasi erezione, del proprio organo deputato al piacere carnale e alla riproduzione. Sorvolando le scene soft-porno del corpo putrescente che copula con quello roseo e carnoso di Teresa Palmer – per altro strada già intrapresa da Bruce LaBruce nel suo ahimè castrato film del 2008 Otto; or, up with dead people –  la regia avrebbe comunque guadagnato in audacia e affrontato il tabù sessuale con la giusta ironia dando all’intera pellicola un tono diverso ed originale.
Resta il fatto che questi zombi che ritornano letteralmente a sanguinare, quindi a rivivere e vengono così reintegrati nel consorzio umano, è una felice metafora dei tempi moderni. Se in Romero gli zombi erano l’allegoria dell’uomo consumista, cadavere di se stesso che fagocita tutto senza consapevolezza nella brama insensata di accumulare, accumulare e accumulare, in Warm Bodies il morto vivente è davvero, più esistenzialmente parlando, uno che vive come morto. L’apatia, la noia, la condizione di isolamento e ghettizzazione di cui è vittima non solo R ma tutti gli zombi, sono aspetti molto vicini all’inane adolescente che ha perso la rabbia della lotta politica dei padri e non trova in questo nuovo millennio nulla di meglio da fare che “deambulare”. Stanchezza, malavoglia, indifferenza. Non facciamo di tutta l’erba un fascio, ma oggi gli adolescenti sono per lo più sospesi tra l’euforia del tutto e subito – soldi, droghe e sesso raggiungibili come non mai per le generazioni passate – e la sterilità di questo frastornate tutto e subito, che causa loro l’apatia di cui si celebra la mortificazione in Warm Bodies. Fino almeno al punto in cui l’amore, semplice, istintivo e diretto, riporti quel corpo putrescente a emanare di nuovo calore, appunto un “warm body”. Film insospettabilmente sessantottino. Bellissima colonna sonora, citazionismi a manetta – il teen-dead truccato sotto la musica di “Pretty Woman”, la cover del Blu-ray di Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci accostata per scherzo al viso del protagonista, il balcone di scespiriana memoria con Julie e R (Juliette e Romeo), etc etc etc. Cultura pop antagonista al mito romeriano che qui diventa straordinariamente salvifica.

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