Regia di Benedek Fliegauf vedi scheda film
Non ti preoccupare, Rio. Il rumore che senti è solo il vento. Non è che aria che soffia tra i rami, che passa e va, come la tua vita. Una cosa da poter annientare in un minuto, perché in fondo è già nulla. È la misera esistenza di un parassita della società. Un intruso che va eliminato per una semplice questione di igiene. La famiglia di Rio abita in una casa spoglia e disordinata, priva di acqua corrente, e si veste come può. Ma le sue giornate sono piene di esperienze. Di lavoro, di studio, di gioco, di solidarietà. Tutte attività difficili, svolte ai margini, in mezzo al disagio, eppure cariche di significati umani. Nel bene come nel male. Nel rispetto e nel disprezzo. Nell’amore e nell’odio. I Rom sono un popolo pacifico e malvisto. Il regista ungherese Benedek (Bence) Fliegauf entra nella loro quotidianità, semplice e dura, e costantemente minacciata dalla violenza omicida di gruppi xenofobi. Il suo film - interpretato dai veri personaggi di quel mondo immerso in un’amara invisibilità – si ispira a recenti fatti di cronaca, ad una serie di episodi che hanno insanguinato il suo paese, però non è un documentario. È un dramma che imita la realtà, per risucchiarne l’anima più profonda, e restituircene un distillato trepido e sospirante, di dolore acuto vissuto nel silenzio, sottratto al teatrale dominio delle parole, e consegnato a piene mani al paesaggio, sfigurato dalle sterpaglie, dai rifiuti, dalle carogne. In quella discarica della civiltà, resistere, come persone, è riuscire a cogliere un fiore tra l’erba, o sapersi divertire con un oggetto trovato nella spazzatura. Si fruga nella sporcizia per racimolare il minimo indispensabile a tirare avanti, o a impedire che i sogni muoiano. Ci si nutre di ciò che si trova, ciò che si riesce a strappare ad un universo che, davanti alla diversità, si chiude nel cinismo. E così si finisce per diventare gelosi della propria alterità, rispondendo all’indifferenza con un analogo, orgoglioso distacco. Il divario quindi si allarga, si trasforma in un abisso che segna, all’interno di una stessa specie animale, un’innaturale discontinuità. Alcuni, prontamente, la vogliono leggere come il dislivello che separa un cacciatore dalla sua preda. Cinque famiglie vengono impallinate nelle loro case, per il solo fatto di trovarsi al di là di quella fatidica linea di demarcazione. Non erano di quelle che vanno a rubare in giro, come osserva, a un certo punto, un poliziotto. Non meritavano di finire così, perché non erano loro a dover essere colpite. Si rischia di inviare un messaggio sbagliato, facendo di ogni erba un fascio. Nelle menti più “evolute”, la discriminazione non si ferma ad una banale distinzione tra noi e loro, perché si articola in sottocategorie. I buoni e i cattivi. I decenti e gli indecenti. Gli zingari sono un fenomeno a parte, che va esaminato caso per caso. Eppure, sulla loro eccezionalità, lo sguardo si può posare calmo e leggero, senza notare nulla di strano. Nemmeno la paura interrompe il corso della normalità. Il fremito che si avverte in sottofondo è soltanto mancanza di certezze, in un ambiente divenuto inspiegabilmente ostile, nel quale la propria identità si è trasformata in un problema. Un alito impalpabile, che però fa odore. Un olezzo di morte che grava su un lembo dell’umanità, perché le è stato tolto il diritto di circolare negli spazi aperti e puliti, dove l’atmosfera è limpida e fresca. Quel sentore è un sospetto di ingiustizia che ci coglie solo di striscio, perché la sua origine è troppo lontana. Just the Wind ce l’avvicina al volto, come uno specchio in cui vediamo riflessi i tratti della nostra stessa esistenza, o meglio, ciò che ne rimane, quando ogni cosa deve essere aspramente conquistata.
Questo film è stato presentato agli Academy Awards 2013 come candidato ungherese al premio Oscar per il migliore film straniero.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta