Regia di Ursula Meier vedi scheda film
Simon ruba. Ha solo dodici anni, ma lo fa ogni giorno, alla luce del sole, in mezzo alla folla. Lo fa con il consenso della sua madre ancora ragazza, che, per la vergogna, si fa passare per sua sorella. Il bambino, ogni mattina, prende la funivia, sale verso le piste innevate e lì fa incetta di sci, di berretti, di caschi, di guanti, persino di merende contenute negli zaini incustoditi. È questo il dettaglio che ci ricorda il motivo del suo agire: la miseria, la necessità di mangiare. Forse la fame non ci sarebbe, se solo sua madre riuscisse a tenersi un lavoro, e non scialasse i suoi pochi averi dietro ad improbabili amanti. Si direbbe una storia un po’ così, modellata sugli stereotipi del disagio, con l’unica parvenza di originalità affidata all’ambientazione, né urbana né rurale, perché situata in una località turistica delle Alpi svizzere. Si potrebbe rimanere perplessi di fronte alla ripetitività del discorso, alla narrazione incentrata sulla routine del furto, della vita sbandata di lei che corrisponde ai più elementari cliché dell’incostanza e della fragilità emotiva. A sciogliere la riserva interviene, però, un elemento sottilmente spiazzante, che sposta la nostra attenzione in una direzione inusuale, dove non penseremmo mai di dover andare a cercare l’aspetto inquietante, provocatorio, irrisolto. Se per Simon e Louise la realtà è tutta lì, fatta di giorni sempre ugualmente deprimenti e difficili, senza prospettive e con la rabbia sempre in agguato, è il mondo circostante, quello del benessere e della normalità, ad apparire costantemente fuori asse, attraversato da lampi di crudele incoerenza, da sprazzi di incoscienza e di inattesa pericolosità sociale. Gli adulti, messi di fronte a quel piccolo ladruncolo dalla faccia pulita e dall’aria inerme, non mostrano alcuna pietà. Si presentano sempre cinici, ognuno a suo modo, e persino violenti, senza mostrare tracce di compassione. Quando non si comportano da nemici, diventano complici del crimine. Simon è, per tutti, a seconda dei casi, il delinquente da punire oppure il furbetto con cui scendere a patti. Nessuno gli riconosce, nemmeno alla lontana, l’innocenza che spetta alla sua età, e che dovrebbe far scattare, in maniera spontanea, la benefica molla dell’indulgenza. Simon è trattato da grande, soprattutto nel male, e soprattutto da sua madre. A niente serve che sia solo un bambino. Il suo ruolo lo condanna, senza appello, ad essere ritenuto pienamente responsabile nonché incorreggibile. Il suo destino sembra segnato per sempre: la sua condizione è da considerare definitiva, non vi sono dubbi che nulla, per lui, potrà mai cambiare; il ragazzino è abbandonato ad una sorte che non prevede rimedio. Una sera rimarrà solo, su in montagna, all’ora di chiusura degli impianti, dopo essere stato cacciato in malo modo fuori da un locale: la metafora di un’emarginazione che nasce da una dissennata assolutezza di giudizio, quella mentalità che cerca la proprie certezze nei fossati che prevengono il confronto con la diversità, che rifiutano il concetto di crescita, di riscatto, di incontro. Simon è un soggetto da classificare, da inquadrare, da allontanare o sfruttare: è quello che dà fastidio, oppure, al contrario, fa comodo, perché procura merce a basso prezzo e porta i soldi a casa. Non esiste come persona, come essere di cui ci si debba (pre)occupare. La signora ricca e gentile depone il suo atteggiamento materno quando scopre che Simon è bugiardo e disonesto. Per lui non c’è cuore. Louise si fa pagare, per accoglierlo a letto con sé. E il suo piccolo abete di Natale dovrà andare a tagliarselo da solo, di notte, ai bordi di una strada.
Questo film ha concorso, come rappresentante svizzero, agli Academy Awards 2013.
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