Regia di Christian Petzold vedi scheda film
Il regista Christian Petzold che con La scelta di Barbara è al suo sesto lungometraggio si pone in una posizione intermedia rispetto alle correnti cinematografiche che hanno contrassegnato le tendenze dei cineasti tedeschi negli ultimi decenni. Se da una parte si può individuare una tendenza ad un realismo filmico che guarda agli sviluppi socio politici della società, dall’altra è più evidente l’interesse verso un immaginario influenzato da canali comunicativi più vicini alle molteplici evoluzioni del moderno e del postmoderno. Il pluri celebrato Le vite degli altri (2006) è stato un esempio formidabile di questa interposizione. In comune con quel film, La scelta di Barbara contiene l’ambientazione sociale e storica, cioè la Germania est poco prima della caduta del muro di Berlino, la speranza di un’ipotetica fuga verso un altrove più desiderabile, il clima oppressivo del regime politico. Se però Le vite degli altri rimarcava una possibile via d’uscita utopistica verso un mondo a portata di mano nel quale convergevano ideali sociali e sentimentali, La scelta di Barbara mette esclusivamente a fuoco il dilemma interiore della protagonista (l’intensa Nina Hoss) tenendo sostanzialmente sullo stesso piano le contrapposizioni ideologiche. Barbara è un medico che per aver solo espresso la domanda per fare un viaggio all’estero viene confinata in un ospedale di una cittadina di provincia dove viene tenuta sotto controllo dalle autorità. Se da una parte il regista si preoccupa di descrivere attentamente l’atmosfera che regnava nella Germania democratica del tempo, attraverso la figura centrale e onnipresente di Barbara cerca di superare la lettura diretta di quell’ambiente. Isolata dal suo contesto normale di vita, la donna si trova a confrontarsi con una realtà fino ad allora solo percepita marginalmente e che le restituisce la possibilità di trovare quello spazio che fino ad allora non ha trovato dentro e fuori sé stessa. Il racconto si snoda nei silenzi, nelle inquadrature spigolose ed espressive del suo volto, il mondo che le si presenta davanti risulta tanto inatteso quanto consueto e prevedibile, dotato però di una lucidità nella quale potersi rispecchiare. Si tratta di un cinema più riconciliatore teso ad affievolire le differenze di mondi diversi, portatori di simbologie e valori che mirano ad inquadrare l’essere umano secondo dei modelli precostituiti, il film evita banalizzazioni semplificate fra mondo positivo e negativo, ma costruisce intorno al personaggio un fertile terreno nel quale configurare l’essere o la scelta altrettanto rischiosa del non essere. Quella tendenza stilistica posta a metà che dirige la narrazione, impedisce tuttavia la radicalizzazione del linguaggio, e forse il film perde qualcosa in questo senso nonostante la centralità della riflessione di Barbara. Il volere inserire per esempio elementi che connotano più il genere spionistico (mi riferisco a quelle sequenze nelle quali c’è un macchinoso scambio di denaro da nascondere, o l’improbabile pre finale sulle onde del mare) attenuano la cifra più asciutta e profonda che pervade lo sguardo della donna, in qualche modo ricontestualizzandolo in rapporto a situazioni molto più scontate. Se poi si considera che la collaborazione fra il regista e la Hoss è più che radicata, in Barbara si intravede un personaggio ritagliato su misura per l’attrice, peraltro bravissima, ma che polverizza gli spazi degli altri personaggi riducendoli a comprimari, quando invece una loro analisi più dettagliata avrebbe potuto contribuire ad arricchire quel forte senso di disagio e di contraddizione che la attanaglia.
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