Regia di Lee Daniels vedi scheda film
Profondo, e amarissimo sud. La provincia della Florida, lambita dalle paludi popolate di alligatori, è il torbido teatro di passioni aspre e indigeste come l’acqua fangosa. L’aria è densa dei miasmi delle scorie marcescenti dei sogni traditi, quelli che ingannano, inducendo a credere ciecamente all’esistenza di un altrove migliore, dove tutto è più chiaro e più giusto. Come Londra, dove anche un nigger può diventare un professionista. Come New York, da dove è arrivata Ellen, a portare un po’ di femminile e boriosa raffinatezza. Come il luogo sconosciuto verso cui è emigrata, tanti anni fa, la madre di Ward e Jack Jansen. O come l’ipotetico paradiso della libertà, dell’amore e della giustizia, dove gli innocenti non finiscono in carcere e Charlotte Bless può finalmente sposare Hillary Van Wetter. L’inferno, arroventato dal sole e insidiato dalle mosche, è il posto ai margini del mondo dove chiunque si può nascondere e dal quale ognuno vorrebbe fuggire. È un covo di ladri di piote erbose e di ignoti pugnalatori, che una notte hanno ucciso lo sceriffo Call, a sua volta assassino di tanta gente che non gli andava a genio, soprattutto a causa dell’appartenenza razziale. E dire che in quel regno di paradossi gli hanno pure dedicato un monumento. Ci sono storie che non sanno dove andare, e allora magari finiscono per impantanarsi nei posti più improbabili. È il caso di questo thriller, nato da un’inchiesta giornalistica a sfondo umanitario condotta da un reporter del Miami Times, e terminata con un caso letterario intinto nei colori funesti della più nera delle cronache, tra follia, degrado e sesso e orrore a cielo aperto. Una miscela esplosiva di sottocultura extraurbana, cupa, selvaggia e spietata, senza nemmeno il beneficio della magia primordiale. L’anima maledetta di questa vicenda è la crudezza a cui si arriva a posteriori, nei lembi estremi della realtà contemporanea, quando, avendo perduto tutto e non restando nulla da conquistare, si oltrepassano i limiti della civiltà per abbandonarsi ad una primitività scaturita dal caso, ed inventata ex novo da un’individualità definitivamente uscita dai ranghi. Questa maleodorante deriva dell’istinto è impregnata di liquidi organici, di visceri e sangue, di corpi usati per soddisfare le proprie frustrazioni: pelli di rettili per un paio di scarpe di lusso, parti anatomiche come oggetti di violenti desideri, muscoli neri a rimpiazzare delusioni di razza bianca. Tutti gli impulsi carnali finiscono nella stessa massa umida e viscida, pastosa come la parlata di quelle regioni, con le sillabe che si arrotolano acquose tra la lingua e il palato. In questo giallo bagnato di saliva, il sudore della fatica e della bramosia è tutt’uno con quello prodotto dalla tensione, che è l’ansia di un riscatto impossibile, ed è paura rinviata a dopo, e solo momentaneamente travestita da speranza. Non si può pensare questo film disgiunto dal suo impatto estetico, basato su una molle e sinistra seduzione dall’esito fatale. Il racconto si muove lento, dai primi passi incerti in un ambiente middle class affetto dal senso del fallimento, al finale degno del più classico horror lagunare. The Paperboy è una storia magnificamente sbagliata da cima a fondo, che, mentre è in cerca della verità, continua a volteggiare macabramente nell’errore.
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