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City of Life and Death

Regia di Chuan Lu vedi scheda film

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La recensione su City of Life and Death

di ilcausticocinefilo
9 stelle

 

Le parole talvolta non rendono, i numeri men che meno. Ed è precisamente per questo motivo che, al di là delle statistiche e della Storia in generale, bisognerebbe concentrarsi anche sul “micro”, sul personale, sul particolare. I dibattiti sulle cifre (qualche migliaio in più, qualche migliaio in meno) testimoniano di un tentativo di svincolarsi in parte dagli avvenimenti, e soprattutto dalla sofferenza che implicano, per concentrarsi unicamente in un’anestetizzata, e molto probabilmente anestetizzante, diatriba sull’entità del massacro (e, difatti, è proprio ciò a cui si appassionano certi circoli di estremisti ultra-nazionalisti nipponici; questo, almeno, quando non arrivano a negare del tutto la veridicità dei fatti).

 

Ora, dinnanzi ad una simile vicenda (che, col senno di poi, assume peraltro i foschi contorni di un macabro presagio degli altri orrori a venire), la difficoltà nella rappresentazione è palese, ma l’ottimo Lu Chuan tenta coraggiosamente di renderci presenti gli accadimenti, non solo per non dimenticare, ma per l’appunto al fine di impedirci di sorvolare su ciò che quei freddi numeri (tra i 200.000 e i 300.000 morti secondo le stime più diffuse [alcuni arrivano anche oltre] e tra le 20.000 e le 80.000 [e forse anche più] donne, ma anche bambine, violentate e seviziate) significarono e continuano a significare in termini di umana sofferenza.

 

 

locandina

City of Life and Death (2009): locandina

 

 

Priva di retorica e al riparo dal sensazionalismo, diretta con piglio quasi documentaristico, eppure, per ovvi motivi, capace di impattare a livelli profondi, City of Life of Death (o Nanjing! Nanjing! che dir si voglia) è opera che arriva a sfiorare il capolavoro, riportando alla memoria persino, in certi frangenti meno “costruiti”, i momenti migliori del Neorealismo italico (in molti, ad esempio, hanno intravisto una eco di Roma città aperta nella pur breve scena in cui una donna in lacrime tenta di rincorrere un furgone stipato di uomini diretti al massacro).

 

La quasi totale assenza di retorica sopraccitata risulta, va da sé, ancor più ammirevole in considerazione dello scottante tema trattato e degli infiniti spiragli che avrebbe potuto offrire all’inserimento di vulgate patriottarde e revansciste.

Non a caso, il film ha dovuto "sopportare" due lunghi periodi di scrutinio da parte dell’autorità cinesi, una prima volta al fine dell’approvazione della sceneggiatura e una seconda invece in vista dell’approvazione del film finito, per un totale di almeno un anno di attese (il film è stato difatti girato tra la fine del 2007 e l’inizio dell’anno seguente, ma è stato distribuito solo nell’aprile del 2009).

Che sia riuscito ad “emergerne” pare senza sostanziali mutilamenti e mantenendo la sua integrità riuscendo ad evitare l’inserimento di puntate retoriche del genere di quelle che si avrebbe ogni ragione di attendersi da un film hollywoodiano medio di genere ma anche ovviamente da un film cinese di genere di approvazione e co-produzione statale (la China Film Group) ne fa una sorta di mosca bianca persa per il ronzio frastornante dell’omogeneità glorificante e propagandistica di tanti altri film bellici odierni.

 

 

scena

City of Life and Death (2009): scena

 

 

Ma, per ritornare alla sostanza. Nanjing! Nanjing! è un film che smuove e impressiona, strazia e commuove, abbatte e annichilisce, in definitiva colpisce e colpisce duro nel suo mostrare, una volta in più alla pari di altri grandi film del passato, le bassezze cui è capace di giungere l’animo umano qualora gli sene offra l’opportunità (a livello ideologico o “meramente” contingente, meglio ancora se entrambi) e, in generale, i livelli di agghiacciante disumanizzazione cui sono capaci di condurre e indurre certe idee e concezioni quando portare alle loro estreme conseguenze (inutile dirlo, in questo caso i sentimenti di eccezionalismo e di conseguente odio razzista, nei confronti tanto di cinesi quanto di coreani, filippini e via di questo passo, nutriti e fomentati dalla propaganda imperiale nipponica dell’epoca, ma vi si potrebbe anche aggiungere il sentimento misogino, rivolto in questo caso anche nei confronti delle compatriote).

 

Tuttavia, non si tratta (e ci mancherebbe) di un film sui giapponesi intesi come “geneticamente o culturalmente” più portati a compiere simili nefandezze: anzi, il discorso si potrebbe ovviamente allargare a numerosissimi altri avvenimenti e popoli, e difatti il regista non cade mai neppure a questo proposito, evitando le trappole della semplificazione e della banalizzazione (dopotutto, proprio a causa di questo suo tentativo di offrire un quadro realistico e sfaccettato, a seguito della distribuzione nelle sale riceverà addirittura minacce di morte da parte di alcuni spettatori, a causa di un inesistente trattamento di favore di cui sarebbe fatto oggetto all'interno della narrazione il sergente Kadokawa [Nakaizumi], come vedremo più avanti).

 

 

scena

City of Life and Death (2009): scena

 

 

City of Life and Death è un film, dunque, che fa male, ma che induce, almeno è nelle speranze, a riflettere. Perché ciò che è accaduto potrebbe ripetersi (e, difatti, in seguito l’ha fatto) e solo una nuova consapevolezza potrebbe quantomeno tentare di evitarlo in futuro. Niente di nuovo in tutto ciò, è innegabile. Tuttavia il discorso è reso con indubbia potenza e quasi inesauribile inventiva registica (indimenticabile, tra le tante, la prolungata inquadratura della massa di corpi straziati riversi sulla spiaggia: quasi un quadro filmato, per quanto atroce).

 

Cuhan ci regala un grande film, senza dubbio importante nel suo render, si potrebbe dire per la prima volta, cinematograficamente giustizia ad una vicenda forse non troppo conosciuta in Occidente nonché, ancora oggi, al centro di persistenti tensioni non solo nelle relazioni diplomatiche sino-giapponesi, ma anche all’interno del Paese del Sol levante al momento dell’adozione di testi scolastici in taluni casi ritenuti “revisionisti”, o comunque omissivi di dettagli in merito ai crimini commessi durante la guerra, e nel corso delle diatribe politiche.

 

Un ottimo film corale, ben interpretato e fotografato in uno stupendo B/N, che non si tira certo indietro ma che non scade come detto né nella propaganda né nella pornografia; un film capace di stampare nella mente dello spettatore una serie di immagini che finiranno per commuoverlo anche a lunga distanza dal termine della visione (come nel caso della potentissima scena che mostra il destino delle “comfort women”, portate vie come sacchi di rifiuti dopo essere state prese ed utilizzate): insomma, un film memorabile. Sontuoso, tragico, devastante e memorabile (altro momento da pelle d’oca: la “danza” finale tra le macerie), che apre uno spiraglio di speranza solo sul finale, anche se c'è da chiedersi se non sia da considerarsi nulla più che effimera, in sostanza un'illusione. Imperdibile. Peccato, che (e ti pareva) in Italia non sia mai stato distribuito.

 

 

scena

City of Life and Death (2009): scena

 

 

PS:

Significativo ed esemplificativo dei forti sentimenti che ancora, per ovvi motivi, circondano quanto avvenuto il già accennato caso delle polemiche sorte in merito al presunto favore con cui verrebbe trattato Kadokawa, con il regista-sceneggiatore a quanto pare colpevole di aver voluto inserire una figura complessa e sfaccettata e non una semplice macchietta a livello di “Satana incarnato”: sì, perché il sergente è personaggio reale, colpevole e impotente allo stesso tempo (assiste all’abuso di Xiaojiang [Jiang] senza batter ciglio), che non solo non si salva alla pari degli altri ma, nella sua dolorosa parabola, in definitiva rivela l’essenziale banalità del male nonché l’impossibilità di convivere con le proprie azioni, in particolar modo di fronte alla consapevolezza di non aver fatto nulla o troppo poco per impedire a se stessi e agli altri di sottoporre persone inermi a simili soprusi (dolorosissima, a questo proposito, la scena con protagonista Jiang [Gao] che gli chiede di spararle perché sa che già cosa la attende).

Gli stessi fatti sono al centro del successivo e ben più conosciuto The Flowers of War di Zhang Y.

 

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