Regia di Chuan Lu vedi scheda film
Un film ambizioso, dal quale è facile lasciarsi abbagliare. L'autore affronta, coraggiosamente, un argomento delicato - un crimine di guerra di proporzioni bibliche, commesso dalle truppe giapponesi tra il 1937 e il 1938, a seguito dell’invasione di Nanchino – ma di fronte ad esso sembra, al tempo stesso, voler deporre le armi, lasciando che la tragedia riempia da sola la storia. Il racconto si abbandona al corso degli eventi, senza una vera evoluzione drammatica, che non sia lo scontato declino di ogni azione verso il fallimento e l’esito fatale. Gli intenti documentaristici spingono Chuan Lu a votarsi ad un realismo spietato, però anonimo e prolisso, privo di punti di riferimento e di prospettive personali. La regia è spesso fastidiosamente concitata e talvolta inutilmente coreografica, e le emozioni forti, che il film vorrebbe suscitare, si trascinano, invece, fino a spegnersi, nell’agonia collettiva che è l’unico leitmotiv dell’opera. A causa dell’uniformità del tono, la noia si sovrappone presto all’angoscia, disperdendo velocemente gli sforzi profusi nella rappresentazione della crudeltà e del dolore. Alcuni episodi possono essere definiti disturbanti, però lo sono in un modo alquanto convenzionale e, imboccando vie prevedibili, non sempre vanno efficacemente a segno. Esaltato dalla critica e dal pubblico d’oltreoceano, questo film vanta certamente il merito di aver voluto descrivere l’atmosfera dell’assedio come un’alternanza di poche grida lancinanti e di tanto attonito silenzio, e la sua essenza strategica come un circolo vizioso, una melma in cui la disumanità lentamente ristagna ed infine imputridisce. Il racconto si impantana come l’azione militare, che, una volta conclusa la conquista ed iniziata l’occupazione, si trasforma prima in un’ebbrezza di distruzione, poi in una cupa sete di possesso e di potere, che si sazia solo attraverso l’umiliazione e lo sfruttamento dei vinti. L’idea è più che valida, poiché preserva la messa in scena dallo scadimento nel solito contrasto tra melodramma e militarismo, tuttavia è realizzata con scarsa incisività. Un altro piccolo punto a favore è la presenza di alcuni elementi relativi alla cultura cinese e giapponese, benché questi sembrino inseriti un po’ a forza, e male amalgamati al contesto narrativo. Per il resto, questo City of Life and Death è il classico capolavoro in pectore, che punta ad essere la solita meritoria opera di denuncia storica, ma non possiede sufficienti risorse artistiche e creative da distribuire, in maniera organica e convincente, su oltre due ore di pellicola.
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