Regia di Karl Grune vedi scheda film
Si deve alle straordinarie intuizioni di Karl Grüne (regista di origini teatrali e già collaboratore di Max Reinhard) quella che da Rotha a Sadoul, da Kracauer a Béla Balázs (e quindi più o meno unanimemente) è considerata una delle opere più significative del cinema tedesco, che presenta per altro molti elementi di novità e interessanti sviluppi formali per la corrente espressionista del periodo (anche per quel che riguarda l’evoluzione stilistica e di contenuti). Mi riferisco ovviamente a Die Strasse che Grüne portò a termine nel 1923 per conto dell’Ufa, un film girato quasi completamente in studio che si svolge nel corso di una sola notte, concepito e realizzato dal regista senza l’ausilio di didascalie esplicative (nella pellicola, nel pieno rispetto delle intenzioni del suo autore, queste sono infatti totalmente assenti, e l’impatto emotivo della vicenda è affidato esclusivamente alla eccezionale forza descrittiva di immagini di grande potenza espressiva che non hanno davvero alcun bisogno do ulteriori supporti chiarificatori). Devo però segnalare che esistono in circolazione anche copie in cui le didascalie ci sono (un discutibile, deprecabilissimo inserimento apocrifo effettuato in tempi molto più recenti) ma che non sono certo queste quelle che devono essere privilegiate per un eventuale recupero, non tanto perché si è trattato di un intervento inutile e superfluo, quanto per il fatto che si risolvono in un’interferenza gravemente lesiva e irrispettosa dell’unità stilistica dell’opera originale, che sporca notevolmente la magistrale struttura dell’insieme e rende meno fluido e lineare il ritmo dell’azione.
La storia se vogliamo, è abbastanza elementare e potrebbe essere considerata come una specie di parabola morale: più importanti risultano invece le motivazioni e le intenzioni che ci stanno dietro, soprattutto quelle che riguardano le fasi comportamentali del protagonista principale della vicenda, riprese e descritte fra la monotona routine dell’esistenza di ogni giorno (il grigiore del lavoro nell’ufficio; lo squallore della vita domestica) e il prepotente richiamo dei piaceri e delle tentazioni della vita notturna, esercitato dallo sfavillare delle luci di una città in movimento, che rappresentano per l’immaginazione di quest’uomo, molto più di un più che evidente stimolo visivo e le cui profonde sensazioni “emozionali” anche di contrapposizione, vengono chiaramente trasmesse allo spettatore già dalle splendide sequenze iniziali (le immagini di una città sotto forma di visioni interiori, come le definì appunto Béla Balázs).
L’estrazione teatrale del regista (arrivato al cinema a seguito di personali vicissitudini vissute durante la guerra che lo avevano costretto a vivere per lunghi anni fra soldati stranieri dei quali non riusciva a comprendere la lingua, e costretto così a cercare di comunicare con il loro spirito solo attraverso i gesti e le espressioni del volto, una speciale “abitudine” acquisita che aveva poi instillato in lui la conseguente voglia di utilizzare sullo schermo un linguaggio pittorico affidato esclusivamente alle immagini ma che avesse la stessa comunicativa di quello assegnato alla parola) si definisce (e si riconosce) proprio – al di là della scelta di fondo già sopra evidenziata - attraverso una direzione molto caratterizzata degli attori in parte influenzata dal “Kammerspiel” (certamente “artefatta” e spesso sopra le righe come era d’abitudine in quegli anni, ma con tratti di inusuale realismo che serpeggiano specialmente in alcuni degli episodi centrali), che utilizza e piega ai suoi bisogni narrativi, sia la staticità che il movimento dei corpi, oltre che il loro rapporto con gli oggetti, un insieme complesso e articolato che ben si sposa con l’effetto ugualmente strepitoso dell’illuminotecnica adoperata e con il complesso impianto scenografico realizzato da Meidner (nella scenografia - ebbe a scrivere Lotte Eisner nel sul saggio pubblicato anche in Italia nel 1955 con il titolo “Lo schermo demoniaco” - viene trasposto il dinamismo brutale dell’arteria di una grande capitale in una visione luminosa in cui i dettagli pittoreschi descrivono qua e là note vive, con una architettura delle cose ridotta al chiaroscuro e i globi luminescenti delle lampade ad arco che amplificano invece lo spazio con un oscillare un po’ misterioso che con il suo iridescente fluttuare simboleggia l’irrazionale alternarsi dei sentimenti nel capo della vita istintiva del protagonista [Kracauer]).
Proprio per queste sue caratteristiche che differenziano il risultato da ciò che nell’espressionismo cinematografico era stato realizzato fino a quel momento, Die Strasse può dunque a buon diritto essere considerata la necessaria opera di transizione (o anche l’anello di congiunzione) verso il successivo realismo cinematografico che lentamente troverà il suo spazio anche in Germania e che assumerà forme decisamente corpose e appassionanti con Pabst e le sue pellicole. E’ da qui insomma che con l’espressionismo già in precoce declino, nascerà quella che il Kracauer ha definito “la nuova oggettività”. Ovviamente qui il cambiamento è solo abbozzato perché alla fine oltre che nella forma, il film rimane fortemente espressionista pure nella sostanza, a partire dal rispetto di quella consuetudine abbastanza consolidata della corrente, di narrare storie dove i personaggi non hanno nome, ma sono semplicemente “l’uomo”, “la donna”, “il provinciale” , “la prostituta”, e così via. Cambia semmai il fatto che qui assumono una dimensione ancora più simbolica del solito, acquisiscono una emblematicità molto marcata che condiziona tutta l’opera (soprattutto per quel che riguarda la figura centrale dell’”uomo”, il “piccolo-borghese” della storia, che Kracauer definisce in maniera molto calzante, come il filisteo e che in qualche modo rappresenta un’anticipazione del professor Unrath di manniana memoria [L’angelo azzurro], un accostamento significativo e pregnante che Piero Mechini considera opportuno e tutt’altro che arbitrario: due personaggi probabilmente diversi per condizione, ma entrambi filistei burbanzosi e servili, ribelli velleitari e inesorabilmente sudditi per una corrispondente vocazione che li accomuna profondamente nell’essere alla fine subalterni e in buona misura “perdenti”).
Un “filisteo” insomma che in questa pellicola intende essere la rappresentazione della “rispettabilità” che del piccolo borghese costituisce la peculiarità più strombazzata e il suo indubbio e (in)discutibile riferimento morale e sociale.
Ma per rendere più chiaro questo concetto, è necessario forse entrare nel dettaglio di una storia che inizia con una evidente e voluta “banalità” molto borghese: la moglie dell’”uomo” che scodella dentro i piatti la minestra nel rassicurante desco della casa, proprio mentre nella strada sottostante il gioco delle luci (che il soffitto della stanza riflette) si fa più allettante fino a diventare un richiamo così insistente proprio per quel piccolo ometto “filisteo”, da risultare irresistibile e tale da farlo di conseguenza decidere di uscire bruscamente e a suo rischio e pericolo, dal rifugio casalingo, sicuro ma coattivo, per “sperimentare” l’eccitante vita notturna sbirciata da lontano alla ricerca non solo di emozioni forti, ma anche di una più “certa” libertà (di pensiero e di costumi).
La decisione dunque è presa senza alcun indugio ed incertezza, e la natura “libertina” della persona si manifesterà appena l’uomo sarà libero e solo nella strada, pronto per tentare un primo approccio con una prostituta, ma altrettanto lesto nel tirarsi subito indietro ancora incerto sul da farsi, e dove la sensazione della titubanza (timore del peccato o del contagio?) è visualizzata efficacemente dal volto della donna che assume – espressionisticamente - le sembianze di un teschio.
C’è poi nelle fasi successive del suo peregrinare per la strada, anche l’esplicazione evidente di un desiderio di evasione subito represso dallo sguardo rivolto al portafoglio (la sosta davanti alla vetrina di un ufficio turistico dove è in bella mostra il modellino di una nave insieme a seducenti manifesti di luoghi esotici, che evidenzia quel senso di “vorrei ma non posso”).
Ecco però che alla fine, dopo un assurdo vagare errabondo, l’”uomo” troverà finalmente il coraggio di osare varcando la soglia di un locale notturno dove gli avventori gaudenti sembrano davvero figure uscite dai disegni di un album di Grosz. E sarà proprio all’interno del locale che si cimenterà di nuovo nel corteggiamento di una prostituta che questa volta riuscirà però ad attirarlo nelle proprie spire e a trascinarlo nel “vortice” della perdizione (la partita a carte, momento fondamentale del percorso, evidenzia magnificamente la furberia canagliesca degli altri giocatori con cui il protagonista è chiamato a confrontarsi, in una scena magistrale dove gli attori perdono quasi repentinamente il tono teatrale dei gesti che avevano mantenuto fino a quel momento, per assumere invece atteggiamenti più realisticamente concreti e “veritieri” perfettamente corrispondenti al senso di un’azione ripresa da un obiettivo che “fotografa” le cose, l’atmosfera assurdamente tesa della bisca oltre che le persone, con un’alternanza di primi piani e piani medi immersi in una luce “che stempera chiaroscuri” di eccezionale impatto visivo).
E sarà così che l’avventura del “filisteo” alla ricerca degli eccessi gaudenti che le luci ammiccanti della strada promettevano, si conclude con un brusco “risveglio” dopo una sconfitta al gioco e un altrettanto squallido intermezzo amoroso: accusato di un omicidio che non ha commesso, finirà davanti al giudice per una condanna che sembra sicura e che solo l’involontaria testimonianza di una bambina riuscirà ad esorcizzare, salvandolo così dalla prigione per restituirgli quella “parvenza” di dignità perduta, e farlo tornare, impaurito e pentito, all’ovile, o meglio a quella normalità del quotidiano vivere di nuovo rappresentata dalla rassicurante zuppa fumante dell’inizio.
Sulla morale ovviamente non vi è alcun dubbio (o peggio ancora, alternativa): per il piccolo borghese (ed è di nuovo Mechini ad affermarlo) l’ordine in cui scorre la vita va rigidamente osservato, e non può dunque esservi alcuna decisione autonoma al di fuori delle norme dettate dalla morale di quella classe bigotta e dalle abitudini della convenzione sociale, pena la perdita della “rispettabilità” che l’uomo in questo caso ha corso il rischio di bruciarsi – con un salvataggio in corner - in una azzardata, anche se non meglio definita, ricerca di una pseudo-libertà. E’ evidente allora il tentativo di superare il momento di verifica introspettiva, a volte metafisica, del personaggio e delle sue vicende, per stabilire un rapporto più diretto fra il singolo individuo e una società in cui il rispetto per l’uomo non scaturisce da un’educazione civile, ma semmai dalla paura delle leggi, e la dignità diventa un bene da tutelare semplicemente attraverso un decoro tutto esteriore.
Si potrebbe allora dire che in Die Strasse la denuncia sociale non va molto oltre la registrazione di una verità inoppugnabile ma già perfettamente conosciuta ed esplorata, se non fosse per il fatto consolidato e certo che non va assolutamente dimenticato o sottostimato (lo si rileva con assoluta certezza anche in questa circostanza) che l’espressionismo, oltre che un movimento culturale di rilievo, è stato anche un movimento di forte impegno politico che ha utilizzato proprio l’espressione artistica per divulgare idee e “avvertimenti”, oltre che per segnalare attraverso le sue opere, la preoccupazione per i costanti mutamenti di una situazione particolarmente in “ebollizione “ nella Germania di quei tempi, e dove alla ribellione della prima fase, pareva già che stesse inesorabilmente subentrando la resa. Infatti dopo la pesante inflazione che dal 1918 al 1923 aveva devastato l’economia della nazione, si stava ricostruendo con fatica una ripresa economica con conseguente miglioramento delle condizioni di vita di nuovo fortemente classista e una “formale” democrazia politica e di guida del paese, che inducevano a immaginare (un po’ come accade nella precaria situazione dei nostri giorni) una stabilizzazione dello Stato, con la borghesia - intesa come classe dirigente - che si stava preparando, adottando un modello ancora di stampo molto prussiano, a una rivincita totale sulle sfere subalterne ed operaie che avevano tentato inutilmente di scalzarla con la precedente rivoluzione soprattutto culturale. Si stava insomma compiendo lentamente ma inesorabilmente, l’opera reazionaria di indebolimento e di esautoramento della repubblica. Funzionari guglielmini nell’apparato statale, insegnanti guglielmini nelle scuole, ufficiali guglielmini nella Reichsveher, giudici guglielmini nei tribunali… in pratica tutta una restaurazione galoppante (Alexander Abusch, Storia della Germania moderna) che Die Strasse con la sua chiusura così anodina, fotografava “idealmente” con quel suo evidente tentativo di adeguare il linguaggio espressionista introducendoci dentro quasi impalpabilmente, il sintomo della sfiducia (e della rassegnazione) ormai serpeggiante in relazione alle sorti finali della battaglia che il movimento aveva condotto sia nella Germania Imperiale, sia in quella di Weimar, contro l’autoritarismo, le convenzioni sociali ipocrite e il militarismo, uscendone purtroppo definitivamente sconfitto. Una battaglia comunque d’élite persino nella migliore accezione delle cose, a causa anche del linguaggio di rottura violenta che era stato utilizzato, davvero troppo lontano dalle correnti anche di pensiero della cultura tedesca.
Die Strasse è dunque fondamentale, cinematograficamente parlando, per quel suo tentativo di sterzare un poco e orientarsi verso una rappresentazione più realistica dei fatti, non rinunciando comunque all’ausilio dell’impianto espressionista tradizionale e stabilire così un legame più immediato e diretto col pubblico.
Il Kracauer ne sintetizza così l’importanza e la “differenza” anche formale con tutto ciò che era venuto prima: interessante è la regia che rivela ed evidenzia due diverse concezioni stilistiche. Nella concezione del personaggio del filisteo, predomina infatti ancora una mentalità prettamente espressionista. Eugen Klopfer – l’interprete – si muove infatti in questa parte ancora come se fosse un sonnambulo, e quando deve esprimere gioia, smarrimento od orrore, i suoi gesti sembrano dettati più da allucinazioni che da esperienze reali. Indubbiamente questi gesti sembrerebbero meno esagerati se come in “Caligari” , tutto il film non fosse che una proiezione esterna di fatti interiori. Invece intenzioni fortemente realistiche si mescolano all’interno della struttura con quelle espressioniste. Lungi dall’essere semplice fantasia o pura costruzione psicologica, l’intreccio è un episodio della vita di ogni giorno trattato con spirito quasi realistico. Questo spirito anima anche gli scenari – che malamente si sforzano di sembrare ambienti normali – e trasforma i personaggi, eccetto il filisteo, in individui che, pur non avendo un nome, potrebbero benissimo esistere fuori dalla cornice del film (…) E’ dunque un realismo militante che sfida la maniera introspettiva.
In quest’opera infatti, le deformazioni e le aberrazioni insite nella struttura sociale tedesca sono centrali; non altrettanto però la capacità di comprendere fino in fondo le fondamentali contraddizioni di classe che emergono evidenti con tutte le loro falle, quando alla proposta di rivolta al sistema si contrappone la rivalsa autoritaria e reazionaria della dittatura, come accadde appunto in quegli anni..
Un’ultima annotazione per segnalare che si ritiene (Sadoul) che il film rappresenti una delle fonti ispirative che sono alla base del successivo La chienne che Renoir realizzò (ovviamente in uno stile molto diverso e decisamente più crudo) proprio sulla base di una situazione di fondo che praticamente ed oggettivamente, risulta quasi analoga.
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