Regia di Davide Manuli vedi scheda film
Il futuro viene dal nulla, esattamente come le leggende antiche, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Kaspar Hauser è il Messia dell’ignoto, profeta di un’individualità primigenia, ancora spoglia dei miti ancestrali, piovuto sulla Terra da una dimensione in cui esiste tutto ciò che precede la formazione delle parole. Si tratta di idee pure ed informi, rispetto a cui anche la coscienza di sé – il famoso io sono – rappresenta un avanzato stadio dell’evoluzione del pensiero. Il ragazzo sconosciuto ed afasico, trattato, dai vari personaggi, come un fenomeno da baraccone, un santo oppure, semplicemente, un terreno vergine su cui seminare, è l’incarnazione di un’indeterminatezza che si sottrae alla razionalità, ed è dunque, nella squallida uniformità del presente, come un sasso che, lanciato nello stagno, diffonde un’inedita forma di delirio liberatorio. Grazie a lui tutti possono finalmente sognare un nuovo genere di umanità, magica e sapiente, geniale e ribelle, che indica la possibilità di un destino diverso, più intrigante, promettente e tutt’altro che scontato. Davide Manuli rivisita, in chiave avveniristica, l’enigmatica vicenda già portata sullo schermo da Werner Herzog, per far brillare, in un punto indefinito dello spazio e del tempo, la scintilla di una rinascita che tutti accolgono con entusiasmo, ma che finisce per spegnersi precocemente. Troppe sono le aspettative che su di essa vengono riversate, ma a risultare fatali sono soprattutto le contraddizioni prodotte dalla molteplicità di interpretazioni che le varie componenti della società (i religiosi, i potenti, gli artisti e il popolo) attribuiscono all’arrivo di quell’essere misterioso. Siamo all’anno zero, nel luogo X di un’isola circondata dal mare Y, in un paesaggio lunare in cui la storia sembra pronta per essere riscritta daccapo, e Kaspar Hauser, un po’ uomo un po’ Dio, metà maschio e metà femmina, giunge su quelle rive trasportato dalle acque. Appare, all’improvviso, come un novello Mosé (oppure una rediviva Venere) che reca in sé il germe di un nuovo ordinamento mondiale, una nuova legge morale, forse un nuovo canone estetico. È il fiore che tutti, ognuno a suo modo, aspettano di vedere sbocciare, per avere la prova vivente della realizzabilità dell’impossibile: il superamento del dolore, la rivelazione della verità, l’onnipotenza, la perfezione della bellezza. Kaspar, inizialmente, si presta a farsi il burattino delle loro utopie, ma poi l’illusione viene azzerata dalla morte, sopraggiunta per via inspiegabile, proditoria e criminosa, frutto dell’ambiguità tra bene e male, per opera di un amico fedele che diventa un vile assassino, come nel sacrificio di Cristo. Lo sceriffo precettore ed il pusher sono i due volti di una personalità che è, nello stesso tempo, capace di credere con tutta l’anima e di distruggere la fonte delle proprie speranze. In questo serpeggiante sviluppo degli eventi, il senso oscilla, incerto, tra esaltazione e mortificazione, lasciandosi rapire, a tratti, dall’estasi dell’evasione dalla realtà. Il bianco e nero che toglie splendore alla luce solare e gli accenti disarticolati della musica techno sono il primitivo alfabeto visivo e sonoro di un’allucinazione che ci riporta alla radice preistorica delle nostre moderne inquietudini: la tabula rasa che eravamo agli albori del nostro percorso biologico si riaffaccia, alle soglie del domani, nelle vesti di un nichilismo che elegge a suo idolo un trovatello muto ed inetto.
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