Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Uno dei luoghi comuni più usurati degli ultimi anni: Steven Soderbergh è un regista eclettico. Vero, certo, ma si potrebbe anche andare oltre e non restare ancorati a questa formuletta che ci evita qualunque approfondimento reale. Soderbergh è una macchina da guerra, accostabile per certi versi a Tarantino per organizzazione e mentalità, è prolifico e versatile, ha vinto un Oscar (e nell’anno in cui l’ottenne era candidato anche per un altro film, roba capitata a pochissimi, tra cui Coppola) e ha fatto anche sfracelli al botteghino.
Fatta questa premessa, bisogna mettere in chiaro subito che Magic Mike è un blockbuster ed arriva dopo opere che non hanno ottenuto un grande riscontro di pubblico. Una specie di tentazione da parte di un autore riconosciuto che in un ventennio di carriera è saltato dallo sperimentalismo di Bubble alla fighetteria di Ocean’s Eleven. Se vogliamo anche molto facile, perché fondamentalmente è il perfetto esempio del genere “paraculo” (niente doppi sensi). La motivazione è semplice: la necessità di voler ricondurre tutto alla parabola del sogno americano, una roba che fa felice la maggior parte dei cinefili ma che è tendenzialmente una paraculata.
Magic Mike, in realtà, è una sfilata di corpi tonici e perfetti, pronti all’uso di donne che pensano di essersi emancipate attraverso il possesso fisico del maschio e che si comportano nello stesso identico modo dei maschi tanto vituperati e criticati. Alla base c’è la grandissima furbata di proporre al mondo femminile ciò di cui il mondo maschile abusa dalla notte dei tempi, creando una specie di culto (del corpo) analogo, che so, al rito delle chiacchiere al cocktail di Sex & The City. È un’emancipazione (s)tentata che passa attraverso l’idealizzazione di un mondo lontano ed inaccessibile (che sia la movida nevrotica di Sex & The City o il bicipite provocante di un divo americano) che porta allo sconforto riottoso dell’uomo medio e all’eccitazione della casalinga di Voghera e della liceale di Mondovì.
Lasciando perdere questa strada pseudosociologica, il problema fondamentale del film è la sua estrema prevedibilità. È la classica (ma sarebbe più giusto dire consueta) parabola di ascesa e declino di un post adolescente alle prese con qualcosa di troppo grande, che amalgama una serie di riferimenti, allusioni e citazioni di tanto cinema precedente (più di un’analogia, per esempio, con Boogie Nights). Sì, magari c’è di mezzo il sogno americano che diventa incubo, le contraddizioni del grande paese, i pericoli del successo e tutto il resto, ma da Soderbergh ci si dovrebbe aspettare di più.
È un veicolo per Channing Tatum, dalla cui esperienza il film è tratto, che incarna il lato umano del sogno, il padre che è anche figlio, la possibilità di un futuro diverso e la rassicurante speranza di una protezione. A parte una caduta di stile nella seconda parte, il magico Mike è l’unica certezza in un complesso di personaggi egocentrici e tossici, vanitosi e buffi, e non è un caso che lo interpreti proprio Tatum, a cui il personaggio s’ispira, che oggi fa l’attore con successo (e tra l’altro sta anche diventando bravo) e quindi fuori da un mondo discutibile per quanto nobile (non a caso ad un certo punto afferma come lui sia distante dal suo stile di vita, che Mike e Magic Mike sono due cose distinte).
Per il resto c’è poco altro in questa furba e testosteronica operazione commerciale, al di là dell’estetica schietta e della mancanza di pregiudizi, ma va citato un ambiguo Matthew McConaughey in uno di quei ruoli che ti puzzano di ruolo della vita, stripper quarantenne (gli stessi muscoli sono ben differenti da quelli del ventenne Alex Pettyfer o del trentenne Tatum) che ha negli occhi il cinico disincanto di chi sa stare al mondo.
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