Regia di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski vedi scheda film
Sei storie in cinque secoli, mixati a piacimento dai creatori di “Matrix” per realizzare una storia faraonica e dalla visione stremante. Dagli Stati Uniti di metà Ottocento ad un futuro “106 inverni dopo la caduta” (più o meno il 2300), passando per il periodo della seconda guerra mondiale, la Los Angeles del 1973, la Londra odierna e la Nuova Seoul del 2144, sei soggetti accomunati dalla medesima macchia sul corpo, vivono esperienze apparentemente dissonanti, che nel finale convergeranno verso un senso comune. La complicatezza dell’intreccio, scombussolato ulteriormente da un montaggio che cavalca l’onda del turbinio della sceneggiatura (tratta dall’omonimo romanzo di David Mitchell), viene ulteriormente destabilizzata dalla presenza di attori che interpretano ruoli disparati, fondamentalmente senza una ragione pratica (se vogliamo escludere le ipotesi di Cesare Lombroso): Tom Hanks è quasi ovunque il subdolo, Hugh Grant il potente, Hugo Weaving il bastardo, Halle Berry la combattiva, Susan Sarandon la musa. A sottolineare che ogni epoca è formata da personaggi, ruoli ben definiti che c’erano e ci saranno sempre, e che dal loro equilibrio dipende tutto.
Se “Matrix” era un film puramente fantascientifico, una ludica e distopica esegesi alternativa alla concezione convenzionale dell’esistenza, in cui un singolo può fare la differenza, in “Cloud Atlas” non c’è un “prescelto”, per cui il tutto è frutto della coralità delle azioni e della cooperazione tra esseri umani. Il messaggio, accennato nel finale, monta progressivamente e si fa strada attraverso una costruzione che appare tortuosa soltanto nei primi minuti di visione. Compresa l’antifona, lo spettatore esce dall’iniziale spiazzamento e prende confidenza con l’operazione, finendo molto presto per non esserne (più) straniato. Da questo punto di vista, un ruolo focale lo ricopre il montaggio, che si potrebbe definire “per assonanze”, realizzato cioè talvolta attraverso uno strano mix di raccordi (sullo sguardo e di movimento assieme). Questo tipo di decoupage, sciorinato con insospettabile sicumera, e che lega freneticamente insieme epoche e vicende differenti, anziché allontanare finisce per addestrare alla visione, ed in maniera più rapida del previsto. Oltre al montaggio sorprende molto il trucco, tanto che alcuni attori sono irriconoscibili, anche per via di alcune scelte a dir poco azzardate: se l’icona coreana Bae Doona con la parrucca rossa è quasi improponibile ed Hanks è martoriato da maschere quasi deformanti, colui al quale le cose vanno peggio è certamente Hugo Weaving (che fa il mostro futuristico, il giustiziere con gli occhi a mandorla, addirittura l’infermiera manesca), al punto che a confronto l’ambaradan utilizzato da Peter Jackson per tramutarlo in un elfo appare poca cosa.
Il romanzo “L’atlante delle nuvole” ha un non so che di magico. Forse perché mescola in maniera centrifuga e sempre più veloce simboli e concetti che prendono indifferentemente da Lombroso, da Darwin, da Croce, da Castañeda pur non essendo mai banale e risultando nient’affatto inverosimile. Si tratta di un lavoro di concetto, un mettere su carta un’idea precisa, e a tratti condivisibile, che i fratelli Wachowski, con buona probabilità in periodi “lisergici”, mettono poi su pellicola dando il loro peculiare contributo (con l’aiuto – anche in fase di scrittura – del cineasta tedesco Tom Tykwer) alla realizzazione di un piccolo capolavoro. Come per “L’armata Brancaleone” di Monicelli, il film rimarrà ai posteri (quantomeno) per quel bizzarro linguaggio alternativo, stavolta futuristico, anch’esso fantasioso per quanto meno verosimile del resto dell’operazione, in cui il lessico è storpiato in nome di una supposta evoluzione sociale umana. Meglio, ma questo era da mettere in preventivo, le scene ambientate nel futuro che quelle di ricostruzione storica, sia negli ambienti che nelle dinamiche. Film da vedere assolutamente, anche perché tra i pochi veramente considerabili senza genere d’appartenenza.
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