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Cloud Atlas

Regia di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski vedi scheda film

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La recensione su Cloud Atlas

di M Valdemar
6 stelle

Così debordante, così fuori controllo (e fuori di testa), così dannatamente annuvolato di concetti informi e disomogenei ammassati confusamente in molteplici sfumature filosofiche, politiche, cosmiche, spirituali che non se ne può, umanamente, parlare male e finanche provare un beffardo sentimento di tenerezza.
Cloud Atlas è un’idea di cinema colossale, di sfrenata, genuina, (im)pura ambizione, un caleidoscopico poema epico cantato per segmenti di vita (ciclica), simbolismi elementari, (dis)armonie, partiture allegoriche e ritornanti. Il tema è “il” tema: l’uomo, infinitesima goccia in un universo fatale e caotico.
Storie, frammenti di vissuto, rievocazioni di eventi in avvenire: le singole linee narrative sono raggi significativi ed emblematici di una circonferenza deformata che rappresenta e contiene (il) Tutto.
Antichi impulsi e bisogni, anche di vanità, virati nella modernissima ottica digitalizzata e supereffettistica, attraverso un’elaborata architettura visiva che risplende di propria luce proprio grazie agli evidenti richiami di opere già note ed entrate con forza nell’immaginario collettivo: il cerebrale prodotto delle menti dei tre registi è un gelatinoso tentativo di spostamento dei confini dei generi e delle memorie acquisite. Tentativo, per quanto colmo di falle, cadute e lacune, perlomeno ammirevole.
Dal (sub)linguaggio, espanso in flussi variopinti schizzati e addensati in un magma che assorbe l’ordinario, l’innovativo, il grottesco e il sublime ridicolo, traspaiono palpabili la furia comunicativa e la volontà di creare un qualcosa di iniziatico, di stupefacente, di alieno. La scrittura, già eccessiva di suo, viene trasfusa nelle forme e nei suoni e nei colori e nelle particelle costituenti il quadro estetico che si sovrappongono, tumultuosi e frenetici, a cercare di raggiungere uno stato di percezione e fruizione che possieda coscienza; con l’obiettivo di esplorare/esplicare l’insondabile mistero primordiale.
Ecco che il ricorso/abuso a strumenti ed elementi quali misticismo, principi new age, culti della reincarnazione, pensieri e ideologie di un umanesimo ancestrale e attuale nonché futuribile, cerca una fusione, una corrispondenza “totale”, con le adrenaliniche, avanzate e manipolate immagini in movimento.
La passione che anima l’anomalo terzetto, e che scaturisce con tutta la sua potenza dallo schermo, pare autentica; parimenti, la confusione sembra albergarvi allegra e un pochino strafottente.
Eppure, il miscuglio fantastico, colloso e consistente, si liquefa in una sostanza vivace, composita, magnificamente folle: sei storie differenti ed eguali, innumerevoli intrecci, percorsi comuni, interruzioni e riprese dalla ineluttabile periodicità, ellissi esistenziali, spira(g)li di stragi e di speranza, di imperiture lotte per la libertà e di martiri. Infine, quello che (forse) verrà. Per aspera ad astra.
Con un montaggio pericolosamente fulmineo, incessante (come la martellante musica-personaggio aggiunto), dal ritmo ossessivo, pulsante, quasi “vivo“ - artificiosamente vivo -, i registi-sceneggiatori-produttori Wachowski Bros e Tom Tykwer riescono incredibilmente ad esporre tutta la (pesante) materia in loro possesso senza realmente stancare. La tensione regge bene, l’interesse rimane desto, cresce col passare dei minuti, delle ore, con l’azione e la violenza che esplodono a tratti rimanendo comunque accessorie; e ciò malgrado alcuni momenti denotino un approccio forse fin troppo sentito ed offrano situazioni al limite del ridicolo (il riferimento è in particolare agli insistiti travestimenti, in qualche caso arditi e malriusciti).
Come braccia armate del grandioso, pretenzioso progetto, gli attori coinvolti agiscono per accumulo vestendo letteralmente più panni, vite, caratteri. Tom Hanks, quello col minutaggio maggiore, risulta meno bollito del solito; Halle Berry non spicca pur essendo presenza sempre notevole; Hugh Grant esibisce il solito campionario di smorfie e svogliatezze (almeno finché è "riconoscibile"); Susan Sarandon appare sprecata e non del tutto necessaria.
Il meglio viene dalle prove di Jim Sturgess, convincente in tutti i suoi personaggi (davvero “alieno” il suo ribell sudcoreano), James D’Arcy (più che discreta la sua sofferta parte di Rufus Sixsmith e bravissimo nel ruolo dell'enigmatico Archivista), il fido diabolico Hugo Weaving, che gigioneggia alla grande nei suoi ruoli da cattivo globale (persino nella goffa veste della ingombrante e manesca infermiera Noakes), la meravigliosa “replicante” Bae Doona (ma nella parte della moglie dell’avvocato Ring è resa assurda dal camuffamento, infatti le inquadrature sono poche e con stacchi veloci), e soprattutto da Ben Whishaw (intensa e bellissima performance nel ruolo del tormentato compositore Robert Frobisher, autore de “L’atlante delle nuvole”) e dal grande Jim Broadbent: maschera esilarante come Timothy Cavendish (cui sono affidati i segmenti di alleggerimento della pellicola) e infido profittatore come Vyvyan Ayrs.
Tra episodi riusciti ed altri meno, scene quasi cult ed altre invedibili, personaggi interessanti ed altri superflui o delineati in maniera approssimativa, Cloud Atlas, del quale si poteva pensare (e sperare …) il peggio del peggio, invece si rivela un’opera complessa, ricca di spunti (anche banali, stravisti), audace ed affascinante.

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