Regia di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski vedi scheda film
Affascinante, assolutamente godibile, altamente avvincente, emozionante, commovente… e perché no? Un inno alla vita, al valore di ogni singolo attimo e di ogni gesto, nonché un’arguta riflessione sul passato e il futuro (il destino?) di ognuno e di tutti…
Già sentite queste parole? Già… Quante volte? Mha… Ormai ridondano sempre più frequentemente nelle critiche e opinioni cinematografiche di parecchi film, al punto che (come nei sogni dei protagonisti del film) mi sembra di sentir già le eco dei futuri vezzeggiamenti a sproloquio che tingeranno d’inchiostro i rotocalchi (che con quest’ultima frase volevo schernire). Diranno “Sono arrivati là dove nessuno aveva mai osato prima! Il montaggio che esprime la contemporaneità tra eventi distanti nello spazio e nel tempo! Il cinema sublimato alla massima potenza!”. Il signor Griffith e il suo quasi centenario “Intollerance” avrebbero da ridire. Ebbene, senza negare l’incipit di questa recensione, io sarò quello che dirà dove “Cloud Atlas” non funziona. A partire dal marketing, tramite cui il film ci è stato presentato con l’esposizione della sua tesi: i gesti e le opere di ogni singolo individuo si ripercuotono nelle generazioni future e (grazie al montaggio) passate. Detto questo, lo spettatore comincia sin da subito, da bravo detective, a rintracciare i collegamenti (evidenziati con dettagli per i non vedenti) tra i vari episodi che i montatori alternano continuamente e senza sosta, e una volta individuati possono tirare un sospiro di sollievo e godersi la storia forti di aver in pugno il suo significato. Per i più duri di comprendonio, arrivano poi puntuali le insistenti (ma non necessariamente fastidiose) voci fuori campo con cui i personaggi riflettono sui massimi sistemi pronunciando senza esitazione parole chiave come “destino” e “collegamento”. E se vi siete persi qualche “reincarnazione”, i titoli di coda sciolgono ogni dubbio mostrando minuziosamente le varie evoluzioni dei make up degli attori. Dunque il film è finito, si esce dalla sala convinti di averne afferrato il significato profondo, e purtroppo è proprio così. Ci si sente in qualche modo presi in giro, come se qualcuno ci avesse già detto mesi fa che Bruce Willis era morto fin dall’inizio! Non ci sono misteri in Cloud Atlas. Il marketing e le voci fuori campo hanno svolto autonomamente quello che è il compito dei critici (presumibilmente spiegare e analizzare il film) collocando dunque il film nel genere tipicamente Hollywoodiano “A prova di idiota” (senza offesa per nessuno), e più nello specifico nella magica tradizione dei prodotti Warner Bros (gli stessi che alla fine de “Il cavaliere oscuro – il ritorno” hanno inserito un’inquadratura di Bruce/Bale vivo, nel caso non fossero stati chiari gli ammiccamenti e le strizzate d’occhio di Alfred/Caine). La conseguenza di tutto questo spiegare credo sarà proprio l’opposto di quanto si sono auspicati i fratelli Wachowski: “Cloud Atlas”, non avendoci dato occasione di riflettere e dire la nostra, resterà nella bolla spazio temporale della sala cinematografica e non avrà un posto di riguardo nella nostra memoria. Chiaramente vincerà qualche Oscar, almeno come miglior trucco e miglior produzione (dicasi anche miglior Film).
Ne ho parlato tanto male, eppur gli ho dato tante stelle. Perché? Perchè Cloud Atlas fallisce nell’obiettivo che si era preposto ma ne raggiunge un altro. Gli spettatori cinefili troveranno un ottimo divertissement di tre ore tecnicamente e formalmente perfette e accattivanti. Il già citato trucco, ma ancor più la mastodontica organizzazione che è stata necessaria per mettere in scena un colossal di proporzioni smisurate non mancherà di affascinare e alimentari i sogni degli spettatori più impegnati e appassionati anche di pre-produzione (quanti siamo?), mentre tutti gli altri più dediti alla narrazione, troveranno di che divertirsi non tanto nei collegamenti tra gli episodi quanto negli stessi singoli episodi, tutti diversi (anche nel genere) ma ugualmente divertenti e commoventi. Chiedo venia se prima ho utilizzato quel linguaggio fastidiosamente ironico, ma credo che così facendo abbia raggiunto il mio scopo di smitizzare il nuovo capolavoro (sotto i giusti aspetti) dei fratelli Wachowski.
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