Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Biopic filologico ma soprattutto logorroico, firmato da Steven Spielberg e con protagonista un (al solito) magistrale Daniel Day Lewis. La ricostruzione della vita del presidente statunitense, eroe nazionale per la lotta alla schiavitù e protagonista della risoluzione della sanguinosa Guerra di Secessione, è concepita dagli autori come asciutta ed essenziale, molto basata sui dialoghi, con la maggior parte delle scene girate in interni e con delle discrete caratterizzazioni dei personaggi. In particolare il taglio conferito alla sceneggiatura predilige la rappresentazione apologistica di Lincoln, delle sue idee e del suo modus operandi. Quella di Spielberg è una sorta di risposta a “Via col vento”, in cui la politica era quasi assente e il film si giocava tutto sulle emozioni delle vittime (specialmente psicologiche) della guerra; qui invece di conflitto fratricida si accenna spesso, senza tuttavia mostrarlo quasi mai, se non per le (illusorie) scene iniziali: d’altronde Spielberg non ha soldati Ryan da salvare, ma presidenti da magnificare.
Ci sono più storielle narrate dal Presidente Lincoln che soldati morti, più dialoghi in Parlamento che scene che mostrano la schiavitù, sintomo che nelle intenzioni degli sceneggiatori c’è di fornire uno sguardo sul protagonista, stranamente poco trattato dal cinema finora, attraverso un metodo di narrazione quasi accomunabile a quelle ricostruzioni televisive realizzate per fare chiarezza sui più attuali fatti di cronaca (manca poco che si legga in sovrimpressione che quelli sullo schermo sono attori e non i reali protagonisti…). La volontà di un certo taglio, dovuto al soggetto tratto dal libro “Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln” di Doris Kearns Goodwin, è coerente per tutta la pellicola: tanta concretezza e poco spazio al romanzamento: nemmeno l’episodio più famoso della vita di Lincoln, il suo assassinio, è narrato direttamente, ma avviene fuori dalla linea di narrazione.
Dunque si tratta di scelte, ed in quanto tali possono piacere o meno. Ma sono indubbiamente ed indiscutibilmente scelte coraggiose quelle di Spielberg e compagnia, che rischiano nel realizzare un film molto fedele alla realtà, quasi documentaristico; l’effetto collaterale è la noia mortale di cui è intrisa tutta la pellicola: tanti dialoghi, poca azione, nessuna spettacolarizzazione. Il tutto per oltre due ore di durata, in cui se si perde il filo si deraglia clamorosamente nell’attenzione e la noia monta ancora prima, agognando, esausti, i titoli di coda.
Degni di nota gli aspetti più tecnici (costumi e scenografie in primis), mentre sul trucco c’è qualche cedimento. Ovviamente la cosa migliore, ma accade quasi sempre quando il protagonista è lui, è la recitazione di Daniel Day Lewis, con la sua interpretazione intensa e stentorea, figlia dell’ennesima metamorfosi di carriera (peccato per il doppiaggio affidato a Pierfrancesco Favino, ben fatto per carità, ma dissonante e a tratti fastidioso, per un eccessivo intimismo ed un’inflessione spesso farfugliata).
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