Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
È il 31 gennaio del 1865 quando il Congresso degli Stati Uniti è chiamato a pronunciarsi sul tredicesimo emendamento della Costituzione, quello che vorrebbe eliminare la schiavitù in tutto il Paese. La nazione è in guerra già da 4 anni, le perdite umane sono incalcolabili (intorno ai seicentomila uomini) e, grazie alla superiorità nordista, Abraham Lincoln, sedicesimo presidente americano, se volesse potrebbe mettere fine alla Guerra di Secessione. Ma gli preme arrivare a quella data per portare davanti al Congresso la votazione sul tema che più gli sta a cuore, l'abolizione della schiavitù, appunto. Il film è, nella sostanza, la storia della ricerca dei 20 voti che i Repubblicani devono sfilare ai Democratici per arrivare al successo. Sì, avete capito bene: i Democratici sono quei vecchi parrucconi che sostenevano le differenze di razza e il regime di schiavitù, mentre i Repubblicani erano progressisti e abolizionisti. Paradossi delle parole.
Come sempre, il film di Spielberg è stato preceduto da abbondanti squilli di tromba, servizi su ogni medium, pubblicità a cascata, come si deve nei casi di uno che nel mondo del cinema conta quanto Blatter nel calcio, Murdock nella televisione e Standard & Poor's nella finanza. Se poi ci mettiamo tutta la retorica nazionalista, quanto sono buoni i bianchi, l'incipit che riecheggia la carneficina iniziale di Salvate il soldato Ryan e una spruzzata di buoni sentimenti - sintetizzati nella figura del vecchio repubblicano impersonato da Tommy Lee Jones, che dopo aver combattuto trent'anni per l'abolizione della schiavitù, medita il passaggio all'estensione del suffragio ai neri - ecco spiegata la valanga di candidature all'Oscar che Lincoln ha ottenuto. A vedere il film davvero non se ne capisce il motivo, a cominciare da quella a Daniel Day-Lewis, altrove strepitoso (Gangs of New York, Il petroliere), ma qui troppo impegnato a parodiare la mimica inamidata di un presidente lungagnone e con l'andatura da bradipo. Della stessa figura di Lincoln, poi, emerge poco: gli ideali egualitari, l'attitudine all'aneddotica e la forza ironica, l'amore per i figli, la tragica fine pochi qualche mese dopo l'approvazione del 13esimo emendamento. Il tutto raccontato con uno stile narrativo da polpettone, stanco, lentissimo, tremendamente verboso, retorico, preoccupato più della forma che della sostanza narrativa e con il solito, insopportabile accompagnamento musicale di John Williams, che dà fondo a tutta la sua verve pomposa e rococò.
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