Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Solo chi ha un cuore di pietra, l’animo arido e occhi foderati di cinismo non volge lo sguardo con simpatia, benevolenza e un pizzico di commozione a quella che è una tenera e deliziosa storia d’amore adolescenziale. Tipica, condita di moti di ribellione, irta di ostacoli, intrisa di umori riflessivi, calata in una (ir)realtà che ha i confini del sogno, o forse del ricordo, o ancora delle fantasie a cui ognuno ha almeno una volta nella vita ha attinto: lo spazio, anche oltre le apparenze, gli abbellimenti, le distrazioni, le costruzioni (a)simmetriche, è tutto, giustamente, per la - e della - giovanissima coppia.
Il riscontro è plebiscitario, l’entusiasmo cavalca onde come un fanciullino macina chilometri di viuzze emozionali, le pupille si dilatano per meglio accogliere la variopinta rigogliosità che fuoriesce dallo schermo: Wes Anderson fa centro. Di nuovo. Le espressioni colme di gaiezza e la (ristretta) gamma di aggettivazioni (“bellissimo”, “meraviglioso”, “incredibile”) non possono che testimoniarlo.
Superfluo persino parlarne: l’impalcatura narrativa è solida, strutturata in modo esemplare, munita di tutte le certificazioni del caso; ed anche oltre. Perché certo non basta mettere due ragazzini che amoreggiano per fare (del buon) cinema, per raccontare con un minimo di sensibilità, accortezza, capacità filmica le bellezze (quand’anche, anzi soprattutto, pervase di problematicità) della giovane età. Ciò dato per assodato, e cioè delle brillanti doti di scrittura e di “impaginazione” del regista, pur in caso di un soggetto tutt’altro che nuovo, non ci si può esimere dal porre/porsi qualche lecito interrogativo, sintetizzandolo magari, brutalmente, in un: ebbene?
Amplificando, semplificando, (s)ragionando.
La cornice. Dentro, l’universo sgargiante scintillante ipercromatico - vero e proprio marchio della fabbrica fantasmagorica wesandersoniana - fatto da tante tessere che s’incastrano perfettamente a formare uno strabiliante mosaico per immagini, suoni, contenuti, meccanismi (par quasi di vederli, gl’ingranaggi, ben oliati e tersi, che armonizzano la melodia dello spettatore perdutamente incantato). Ogni cosa è al posto giusto nel momento giusto nel modo di rappresentarla giusta.
Popolazione: la galleria di personaggi assortiti, pazzeschi, caratteristici, “unici” (dalla macchietta al “presentatore” all’improvvisa intrusione di lusso). Quelli a cui voler bene (effetto immediato), quelli da guardare con un misto di curiosità e diffidenza, quelli che spariscono dal quadretto, quelli da detestare senza se senza ma senz’altro. Tutti con un ruolo (oltre la mera apparenza) che, nel chirurgico disegno del creatore, rendono viva e fruibile l’idea di base (l’idea non è la storia bensì la concezione stessa del creatore che ha bisogno di una storia per nutrirsi ed esistere, autogiustificandosi).
Il contesto. Strano, particolare, "diverso", all’uso. Orchestrazione per (dis)orientamento nel tempo e nello spazio che espande stati d’animo, esplora sintonie d’ambiente, esplode fluidità di frequenze, sintonie, varietà. Dall’avaria comportamentale dei grandi al trasporto emozionale dei piccoli. Incompresi, ostacolati, adorabili.
Lo stile. Surreale, grottesco, sospeso (tra favola e realtà, fantasia e animazione, colore e saturazione di colori). Spruzzi di creatività liquida addensati sul foglio bianco (il nero schermo) a dipingere goduria e applicazione. Già, il dettaglio e la sua cura: di tanto buongusto, d’innata abilità, di evidente compiacenza. Un po’ (tanto) ossessiva, anche. E come prima, la ricercatezza si serve di quello che passa il convento per misurarselo (il livello di gradimento).
La musica. Fondamentale, protagonista, personaggio che si muove fantasmatico ma onnipresente tra le mura del fantastico riquadro. A volte invadente e fastidiosa, altre sublime (da Francoise Hardy al pezzo originale di Alexandre Desplat nei magnifici titoli di coda che forniscono la chiave di accesso al mondo e al modo di fare cinema di Anderson). Prego (è la risposta a quel “grazie per l’ascolto” posto al riverbero dell’ultima nota).
E via così: d’ogni ingrediente, sfumatura, spezia si giunge più o meno al medesimo punto d’analisi.
Cast, come da (buona) abitudine, eccezionale: un ensemble splendido di simpatiche figure allineate, con cieca dedizione e complicità, all’operazione programmatica dell’estremo ed eccentrico deliziare. Volti noti: il sempre grande Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton (la senza cuore “servizi sociali”), Harvey Keitel (cameo fulmineo), Bruce Willis, il magnifico Edward Norton. Fuoriclasse al servizio (più l'attore feticcio fantoccio Jason Schwartzman). Quanto ai debuttanti - la coppia che con la loro fuga dà il via alle danze - essi si rivelano un’azzeccata combinazione di caratteri e fisicità; anche se lei (Kara Hayward, bravissima) appare decisamente più matura e formata del compagno occhialuto (Jared Gilman).
Su la cornice. Ancora. Oltre la cornice. Che rimane? C’è la storia, certo. L’amore, la fuga, l’avventura, la società, la morale, le figure strampalate eppur profonde (sole, spaesate, depresse: c’è sempre “qualcosa” in ognuno di noi, anche nel più stolto o cattivo). Ma, tralasciando la ovvia mancanza di originalità del tema (e dei suoi risvolti), il racconto è dopato da un senso del grottesco, dell’eccesso (è facile oltrepassare il confine che separa il bizzarro dalla caricatura), in ogni direzione e con qualsiasi mezzo, che rende - o vorrebbe rendere - l’inverosimile verosimile, accettabile, un (ennesimo) dettaglio da curare. E il sospetto è sempre quello: la trovata, pur nel suo complesso prospetto di riferimenti e riflessioni ed in ogni sua manifestazione (visiva, sonora, di caratterizzazione), è una preziosissima organica pertinenza del grande disegno oppure è un mero artificio, fumo negli occhi, che esiste in quanto tale?
L'impressione è che Wes Anderson possa ripetersi all’infinito, piegare ogni storia al suo stile e modo di rappresentazione, riproporre con successo l’equazione “perfetta”. Ma col rischio - quanto concreto lo diranno le opere successive, anche se ci sono già dati rilevanti - che questa non definisca che se stessa e che soprattutto non esprima alcuna traccia filmica - effettivamente e durevolmente - significativa.
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