Regia di Joe Wright vedi scheda film
Rimango sempre molto più che perplesso quando si annunciano nuovi rifacimenti di ben rodati classici letterari soprattutto ottocenteschi (di quelli che hanno davvero reso grande la letteratura tanto per intenderci) specialmente se sono fra quelli già molto inflazionati per le trasposizioni in immagini sul grande schermo, poiché in mancanza di un’idea forte che sia davvero alla base di questa decisione (quasi sempre assente), ho spesso immaginato che l’unica ragione a spingere in tale direzione fosse da ricercare in una preoccupante mancanza di coraggio e di idee e quindi in un bieco tornaconto di natura economica che suggerisce di andare sul sicuro e senza rischiare troppo, visto che in ogni caso con simili “canovacci in costume” si può sempre fare e senza troppi sforzi, dell’ottimo “calligrafismo” a buon mercato che paga sempre poiché c’è poi la sponda dell’home video e della televisione a garantire il guadagno finale dei finanziatori, anche nel caso in cui andasse male in sala.
Una pregiudiziale più che discutibile la mia, lo riconosco, perché per giudicare si dovrebbe prima vedere il risultato, ma giustificata nei fatti dalle troppe fregature ricevute. Per supportare comunque il mio posizionamento di pensiero, che ammetto possa essere considerato da qualcuno un po’ radicale, credo che sia sufficiente soffermarci a titolo di esempio, sulla assoluta inutilità di quasi tutte le eleganti e vuote edizioni aggiornate da Dickens, che sembra essere un nome più che rassicurante per la produzione, risolte in laccate e futili “cianfrusaglie” commerciali che poco hanno aggiunto e molto tolto non solo ai romanzi di riferimento ma anche ai più pregevoli e “antichi” adattamenti, ultimo dei quali in ordine di tempo proprio l’insopportabile dispendio di energie, di soldi e di talenti, del recentissimo Grandi speranzefirmato da Mike Newell (basta confrontarlo con l’ottimo risultato che aveva invece raggiunto David Lean nell’ormai lontano 1946 per capire cosa intendo dire).
Analoga “prevenuta” insofferenza avevo quindi provato anche verso questa nuova versione di Anna Karenina mitigata semmai soltanto in parte dalla stima che comunque nutro verso Joe Wright e il suo modo di intendere il cinema (non mi piacciono i registi invisibili: il cinema che amo è fatto di autori riconoscibili e molto diversi, come David Linch, Federico Fellini, Andrej Tarkovskj e Sergej Eisenstein. Un regista che non vuole essere visto crea una bugia che vive nella natura elusiva del cinema ed è un qualcosa che non mi interessa. Io credo che il cinema sia un’arte plastica, e intendo sfruttarla in pieno ha dichiarato nel corso di un’intervista rilasciata a Marco Spagnoli) confermato per altro, per lo meno stilisticamente parlando, dai risultai raggiunti con le sue opere più riuscite e fra le quali si può tranquillamente annoverare anche un’altra riduzione ottocentesca, quella che ha fatto nel 2005 da Orgoglio e pregiudizioda Jane Austen, un romanzo certamente meno abusato di quello di Tolstoj cinematograficamente parlando, che è poi anche il titolo che gli ha assicurato fama internazionale pur essendo il suo primo vero approccio con il grande schermo, grazie anche all’ottima sceneggiatura di Moira Moggach e Emma Thompson – il che conferma la fondamentale necessità per ogni “rilettura”, di una adeguata “traslazione” letteraria - e all’intelligente intuizione di una messa in scena che senza fare troppi voli pindarici, ha avuto il non indifferente pregio di dare un taglio più realistico alle “crinoline” della storia, portando in assoluto primo piano le dinamiche e le aspirazioni al femminile dentro la famiglia e la società dell’epoca, per provare a metterle in sintonia con quelle delle ventenni di oltre due secoli dopo, obiettivo felicemente centrato grazie anche alla scelta di optare per interpreti corrispondenti anche anagraficamente all’età dei personaggi descritti nel romanzo.
Se avessi rispettato “a prescindere” e fino in fondo le mie chiusure programmatiche tenendomi lontano dalle sale dove è in programmazione proprio in questi giorni dopo essere passata dal recente Torino Film Festival questa ultima fatica di Joe Wright, avrei però commesso un grosso errore, poiché mi sarei precluso la possibilità di gustarmi la visione di un inusuale ma ottimo prodotto, il che conferma che sono un imbecille quando mi ostino a prendere drastiche decisioni “per partito preso” e che dovrei provare davvero a rendermi meno spigoloso.
Cos’è che (per fortuna) mi ha spinto a più miti consigli questa volta? Prima di tutto proprio le risposte che ha dato il regista a chi in conferenza stampa, a Torino, aveva avanzato le mie stesse obiezioni riguardo all’opportunità di riprendere in mano per riproporlo sullo schermo questo usurato (cinematograficamente parlando) testo della grande letteratura russa dell’ottocento:
Sì, è vero. Di questo grande testo di Tolstoj fra cinema e televisione ne esistono già una trentina e più di versioni in tutto il mondo (la prima se non erro risale addirittura al 1912) ma questo non significa che non possa essere preso ugualmente in considerazione se si ha un’idea forte per una messa in scena: sono le storie più belle quelle che vengono spesso ripetute e raccontate di nuovo, e il loro pregio è che non sono mai uguali a se stesse. Ogni volta che ciò avviene, queste cambiano, e alle volte, adattandosi ai tempi, si trasformano (basta pensare alla storia di Pigmalione, narrata sin dall’epoca dei Greci e giunta fino a “Pretty Woman”), ma in fondo fondo restano sempre uguali, per lo meno come fedeltà tematica, anche quando, come nel mio caso, se ne prova a dare una versione non esattamente conforme pur rispettandone il senso. Non posso però nascondere che quando è stato preso in considerazione il progetto e ho avuto la proposta di girarlo, ero terrorizzato, ma al tempo stesso sentivo prepotente il desiderio di rischiare, perché mi baluginava già qualche idea per la testa che mi faceva immaginare la possibilità di poter offrire così al pubblico una nuova interpretazione – la mia - di questo personaggio tanto conosciuto e amato senza però snaturarlo o peggio ancora sottrarlo al periodo storico a cui appartiene di diritto. Ero consapevole comunque che proprio per la sua notorietà, per i precedenti illustri (non ultimo quello con Greta Garbo) sarebbe stata una sfida importante e rischiosa sia per me che per gli attori, e che per affrontarla dovevamo poter contare su uno script altrettanto importante da utilizzare per concentrarci poi soprattutto sulle interpretazioni, e che solo seguendo questa strada avremmo potuto essere in qualche modo “innovativi” e moderni. Ciò che caratterizza il mio film è infatti e soprattutto, il suo particolare stile, in grado di circoscrivere la narrazione in uno spazio quasi teatrale: una sorta di palcoscenico virtuale insomma che lo schermo mi ha permesso di allargare a dismisura suggerendomi soluzioni anche poco convenzionali fra “esterni” e “interni” che si intrecciano e si intersecano senza alcuna frattura o interruzione. Sarà perché negli ultimi anni sono diventato insofferente rispetto al naturalismo che ho iniziato a considerare come un po’ opprimente, che nell’affrontare questa tragedia ottocentesca e concentrandomi soprattutto sulla potenza delle interpretazioni (il contributo di Keira Knightley è stato fondamentale) ho voluto liberarmi del realismo, che non necessariamente detiene il monopolio della verità. Il mio interesse primario era infatti quello di raccontare la storia tracciando soltanto degli orizzonti interiori. Sono fermamente convinto che come è già accaduto con la pittura, la tecnologia stia spingendo anche il cinema in nuove direzioni, diverse dal passato, e noi che abbiamo la primaria responsabilità della messa in scena, se ci crediamo davvero, non possiamo di conseguenza esimerci dal percorrerle:e io ho provato a farlo in questo caso e sarà poi naturalmente il pubblico a giudicare se e quanto sono riuscito in questo intento.
Parlava di idea forte infatti, e questo mi ha spronato a dargli il giusto (e meritato) credito.
Intendiamoci: non ci troviamo di fronte a un capolavoro “assoluto”, ma il fascino che emana è comunque indiscusso e di elevata presa, crea emozione e trasporto. L’idea forte c’è davvero, insomma ed è magnificamente sorretta più o meno fino in fondo, anche se con qualche piccolissimo “cedimento” nella seconda parte ben recuperato però nello straordinario “finale”.
A mio modesto avviso l’idea a cui accennavo sopra, inusuale e coraggiosa, riguarda soprattutto la novità di una messa in scena fantasiosamente meta-teatrale che prende spunto dal palcoscenico per rigenerarlo spesso però in altra forma, sorretta poi da una intuizione altrettanto geniale sulla quale si “appoggia” tutto il film, che è quella di considerare il dramma di Anna Karenina una specie di copione universale, e di utilizzarlo come un canovaccio sul quale “ricamare” immagini e sensazioni in grado di estrarne nuova linfa e farlo diventare non più e soltanto una semplice tragedia ottocentesca, per quanto bella e appassionante possa apparire anche ai giorni nostri, ma anche e soprattutto, un percorso narrativo di inedita fattura all'interno del quale poter movimentare la “rappresentazione” più mediata e moderna dei personaggi presi dal romanzo qui fatti agire principalmente in funzione dei propri stati d’animo, e quindi utilizzando l’esposizione amplificata dei sentimenti espressi con la forza dei loro “movimenti” di azione e di pensiero.
Joe Wright ha messo così in scena il teatro della vita e le varie declinazioni dell’amore e della sofferenza con un affresco corale dove sono molte le figure che diventano soliste in alcuni tratti, ma il cui centro è sempre Anna e il suo rifiuto di piegarsi all’ipocrisia della società del suo tempo, che la fa assomigliare a una pericolosa “ribelle”, quasi una sovversiva che minaccia l’ordine costituito delle cose e per questo viene emarginata: non per il tradimento in se stesso, ma per la maniera insolita con cui intende viverlo fino in fondo in nome dell’amore, e il regista ci fa percepire i terribili esiti anche “sociali” di un isolamento punitivo che gli altri – soprattutto le donne – mettono in atto impietosamente e quasi con baldanza nei suoi confronti. Nel film viene infatti dichiarato a chiare lettere che non ha violato alcuna legge e che se fosse stato questo il suo peccato, poteva benissimo essere tollerata e perdonata: ha invece avuto la spudoratezza di infrangere le “regole” imposte, condivise ed accettate, ed è proprio di fronte all’ostentazione di questo “tradimento delle convenzioni” che mette in discussione tutte le basi consolidate di una struttura obsoleta di rapporti fra i sessi e le classi sociali, che non ci può essere nessuna comprensione e tanto meno assoluzione, una lettura interpretativa a suo modo “rivoluzionaria” che la fa assurgere al ruolo di eroina “tragica” e predestinata, quasi una femminista ante-litteram troppo in anticipo sui tempi.
I punti di vista (e le storie parallele) delle persone coinvolte nel dramma anche marginalmente, non sono comunque mai trascurati: anch’essi sono infatti portati in primo piano (bellissima la scena della dichiarazione d’amore della coppia positiva della storia, fatta attraverso l’utilizzo delle lettere e dei cubi del gioco dello “Scarabeo”, che diventano il tramite che permette al timido Levin di manifestare il suo sentimento alla virtuosa Kitty , entrambi ben definiti anche scenicamente dalle puntuali caratterizzazioni attoriali di Domhnall Gleeson eAlicia Vikander) ed hanno tutti le loro “necessarie” scene madri come accade in teatro (la mediazione di una “recita” che ciascuno fa sempre della propria vita) per esplicitare al meglio le loro posizioni e reazioni rispetto all’attrazione o al sentimento, e che fanno spesso da straordinario contraltare alla “sfida” di Anna che sceglie invece di vivere senza troppi compromessi la sua passione sessuale per il fascinoso conte Vronsky.
Qui si parla insomma non solo di amore, di tradimento, di onore calpestato, di colpa, di vendetta, ma anche di uno status sociale inadeguato dove ancora e sempre è la donna anche nelle classi più elevate ad essere subalterna ad ogni altra posizione dominante e a venire schiacciata brutalmente se solo si discosta dal “dovere” che le è stato imposto (figuriamoci quando ci si ribella), esattamente come accade alle “classi inferiori”asservite al potere che devono essere ossequienti e “riconoscenti”, fino ad accettarne passivamente tutti i “canoni di comportamento” stabiliti loro malgrado.
Ecco allora che il luogo ideale per raccontare il romanzo e le sue pulsioni in questa nuova forma e dimensione, non è più la realtà, il realismo, ma bensì la finzione “mediata” che è propria del teatro (qui trasfigurato però dalla potenza immaginifica del cinema che offre soluzioni impensabili per le semplici assi di un palcoscenico e che nella pellicola assurgono al rango di pura poesia dell’immagine).
Già dalla prima sequenza, veniamo così trasportati in una dimensione funzionalmente astratta (esattamente come accadeva un tempo con le maschere della commedia dell’arte ognuna delle quali raffigurava una precisa connotazione psicologica e comportamentale immutabile nel tempo e come tale perfettamente riconoscibile) che ci proietta nel giusto clima e che fa sedere anche noi, sia pure virtualmente (ma con il giusto stato d’animo), sulle poltrone della platea del teatro mostrato dallo schermo dove - davanti al rituale sipario di velluto che si alzerà poi in un tripudio di luci e di fondali dipinti - stanno prendendo posto gli spettatori di finzione. Da subito però l’osmosi fra palcoscenico e sala che si trasforma spesso a vista d’occhio in tanti differenti luoghi deputati “tecnicamente” idonei per lo scorrere narrativo della storia, è costante e articolata, sostenuta da strepitosi movimenti di macchina in costante “agitazione” che li aiuta a connotarsi e diventare di volta in volta e quasi magicamente, alcova, stazione ferroviaria, ufficio, ippodromo, teatro nel teatro, e così via. Si inglobano così in un unicum che supera le distanze e il tempo, tutti i luoghi “reali” che girano intorno alla scena teatrale, compresi quelli della graticciata, dei corridoi, del dietro le quinte con un semplice movimento orizzontale o ascensionale della cinepresa che fa sì che l’azione si sposti per allargarsi e trasformarsi in altro (un differente momento, il racconto delle vicende di nuovi personaggi, la visualizzazione di una festa o di un momento più intimo e privato), in un gioco costante e dilatato sul tema “della rappresentazione scenica dell’amore e del dolore”, come nella bellissima, indimenticabile, poetica sequenza conclusiva con il prato fiorito e l’erba alta dove un momento prima si aggiravano le figure di Karenin e dei due figli di Anna, che si insinua e cresce nella platea ormai deserta, analogo ed immutato nella forma, ma certamente molto più “astratto” e meno reale di quanto non sembrasse prima (letto e riflesso insomma nella sua rappresentazione scenica che lo esalta e scarnifica al tempo stesso fino ad assegnargli un peso simbologico molto accentuato).
Le fortissime connessioni teatrali si possono già riscontrare comunque nella stesura dell’ottima sceneggiatura affidata al grande drammaturgo Tom Stoppard (che ricordiamo autore del celeberrimo Rosencranz e Guildestern sono mortioltre che responsabile primario dello script di Shakespeare in love) e nel suo andirivieni spaziale che estremizza le scene facendole diventare quinte teatrali utilizzate ad hoc per esaltare le fasi del dramma in un intrigante gioco di specchi, di rimandi e di “suggerimenti mnemonici” che vede anticipate molte “premonizioni” del futuro in piccoli flash che materializzano il balenare improvviso nella mente di pensieri, sensazioni e presentimenti.
E’ così che grazie anche al decisivo apporto dello scrittore, la verità tutta letteraria del racconto riesce a trasformarsi nell’esibita finzione di quella rappresentazione teatrale voluta dal regista, fatta di scenari di cartone alternati ad ambienti molto curati e riprodotti con certosina precisione in ogni loro minimo particolare (con la stessa realistica cura insomma posta nel renderci la corrispondenza assoluta dei magnifici costumi giustamente premiati con l’Oscar, rispetto all’epoca di riferimento) che Wright vivifica però con improvvisi tagli di luce sciabolanti per meglio evidenziare silhouette e contrasti, o soffermarsi altre volte su dettagliati primi piani che lo portano poi a planare verso visioni più ampie che annullano momentaneamente le pareti e le quinte (gli esterni dei campi con i contadini al lavoro, i viaggi in carrozza nella neve che hanno una valenza quasi pittorica) per ricacciarci poi all’improvviso di nuovo “dentro” la scena e la sua platea, come nelle brevi pantomime da balletto dei piccoli inserti relativi al lavoro negli uffici, e che si sublima in sequenze di eccezionale forza espressiva come quella dei frammenti del messaggio di Anna gettati in aria con vendicativa indifferenza dal marito tradito, che si trasformano in una nevicata molto “scenografica” all’interno della sala, o l’altra ancor più strepitosa della corsa dei cavalli sulle assi del palcoscenico e il rumore degli zoccoli anticipato e ritmato dallo sventolare sempre più frenetico e ansiogeno del ventaglio di lei che segue la gara dalla tribuna, fino alla rovinosa caduta finale del cavaliere e del suo cavallo che sul proscenio sembra inciampare nelle luci della ribalta per finire disastrosamente in platea sull’urlo della donna che ne smaschera definitivamente la passione tutt’altro che sopita, o ancora l'improvvisa profondità di campo che sottolinea la perdita del figlio da parte della fedifraga alla quale verrà negato ogni contatto con la propria prole. Tutti elementi insomma che Stoppard ha avuto l’intelligenza di rafforzare con competente maestria attraverso la sua scrittura creativa e che aiutano a mettere in evidenza e a sottolineare attraverso i continui scambi tra il “fuori e il dentro”, e quindi tra realtà, fantasia e letteratura, proprio l’universalità simbolica di una tragedia come quella della condizione umana di Anna Karenina e l'insostenibilità di un amour fou che distrugge e si autodistrugge con una raffigurazione quasi metaforica delle cose che alterna l’orizzontalità degli ambienti con la verticalizzazione delle scenografie e mette così in prioritaria evidenza non solo la falsità, ma anche la vacuità di un mondo ormai in declino fatto di ingiustizie sociali e di prevaricazioni, assediato dal gelo morale anche dei rapporti, circondato da una massa infinita di subalterni e servi della gleba, che danza sul precipizio della sua ineluttabile, imminente fine.
Una dichiarazione d’amore per tutto ciò che fa spettacolo, a partire proprio dal teatro, insomma, o meglio ancora… “l’immaginazione al potere”come ha ben definito la cosa Maurizio Porro su Filmtv cartaceo, un geniale dizionario delle meraviglie che riporta alla memoria le innovazioni e i “miracoli” di un teatro che da noi si può identificare con quello dei vari Strehler, Ronconi, Visconti, o del recentemente scomparso Massimo Castri, mio rimpianto dirimpettaio e coevo. Un teatro di regia che all’estero, grazie ai suoi nomi prestigiosi, fa ancora spesso tendenza e rimane abbastanza vigoroso, ma che da noi invece se si escludono alcune esperienze soprattutto dell’avanguardia, ha invero troppo pochi eredi e che le nuove generazioni purtroppo conoscono soltanto “per sentito dire”, che sta lentamente esalando gli ultimi respiri molto simili a rabbiosi rantoli di disperazione anche a causa delle inaccettabili condizioni economiche e di distribuzione con cui è costretto a fare i conti giornalmente..
Teatro dunque, e di quello che una volta si definiva “sublime”. Prima di tutto allora, proprio il treno, tema ricorrente ed anticipatore che ci insegue con i suoi “infiniti ritorni “ fino dall’inizio…. Il teatro e il treno… Credo che sia difficile (anzi impossibile) che Wright conosca la splendida versione teatrale che del romanzo ci ha regalato Eimuntas Nekrosius, ma a me è venuto subito in mente un parallelo mnemonico fra queste due particolari esperienze che mi sembra davvero calzante. Perché penso che Wright non lo abbia visto? Semplicemente per il fatto che anche io l’ho dovuto inseguire a suo tempo come un disperato per riuscire ad acchiapparlo, poichè come purtroppo accade sempre più spesso con le riletture sceniche di maggiore interesse innovativo, viene loro riservata una scarsissima circolazione (e questo allestimento firmato dal regista lituano ben quattro anni fa su commissione del Teatro Biondo di Palermo e di Emilia Romagna Teatro, ha girato poco e male persino qui in Italia toccando solo marginalmente anche i teatri più importanti delle città capoluogo). Posso per questo confermare con cognizione di causa la straordinaria rilevanza di una costruzione monumentale, infinita e stratosferica realizzata secondo lo stile altrettanto inusuale di Nekrosius, che esattamente come questo film, metteva l’accento sulla polifonia sottesa dei personaggi di una delle più celebri vicende di adulterio di tutti i tempi, senza dimenticare il suo contorno sociale. Esistono evidentemente “coincidenze ispirative di pensiero” che creano assonanze e suggestivi punti di contatto, che sembrano far correre su binari assolutamente paralleli (ma alla fine anche molto divergenti nello stile) intuizioni davvero molto similari, a partire proprio da quel riferimento significativo e certo (il treno) che ricorre e incombe in entrambe le letture e sembra rappresentare a volte quasi una possibile via di fuga, altre invece una minacciosa ma inesorabile presenza.
Ed è proprio nella sottolineata insistenza di quel treno sbuffeggiante che arriva in stazione come ad un appuntamento programmato col nefasto destino di Anna, oltre che nella scelta di comprimere lo spazio aperto della grande madre Russia ottocentesca in margini più ristretti delimitati dalle ingombranti quinte teatrali capaci però di aprirsi all’improvviso sull’infinito e di richiudersi poi nei limitati spazi delle stanze dei palazzi, che mi è sembrato di ravvisare i più evidenti echi di quella indimenticabile versione teatrale, così come la plastica coralità tutta coreografata delle danze e dei tableau vivant, mi ha fatto rilevare l’evidenza di un’altrettanto comune fortissima tensione erotica davvero molto più carnale di quella percepita da ogni altra versione visionata qualche altra volta in teatro, ma più spesso al cinema o in televisione e che mi ha intrigato, affascinato e commosso molto di più di tanti illustri precedenti, compreso quello celeberrimo con Greta Garbo.
Anna Kareninaè infatti diventata nella versione di Wright (scusate se mi ripeto riproponendo concetti già anticipati prima) una storia senza tempo che esplora con vigore la disposizione del cuore umano verso l’amore assoluto che cambia drammaticamente la vita di una donna e di tutti quelli che la circondano, ma fa però allo stesso tempo piena luce sulle disuguaglianti distorsioni di quella sfarzosa società - cuore pulsante della Russia imperiale – ossessionata e condizionata dall’apparenza e dalle convenzioni.
Ed è allora così che il romanzo che Dostoevskij considerava perfetto, si conferma “perfetto” anche sullo schermo (soprattutto come veicolo di emozioni) nel rappresentarci attraverso proprio la splendida performance dell’attrice “feticcio” del regista, l’intensa e naturalmente tragica Keira Kinghtley, una Karenina frivola e inizialmente inconsapevole, elegante e disperata, quasi cromosomicamente destinata alla distruzione. Dopo Orgoglio e pregiudizioe Espiazione, si ricompone così il felice connubio fra regista e interprete (qui ritroviamo anche Matthew MacFadyen, riproposto nel ruolo del fratello anche lui fedifrago) mentre è ancora di Dario Marianelli l’indovinata colonna sonora che fa da sottofondo.
Se della Kinghtley (che qui fornisce forse la prova matura delle sue sfaccettate qualità) dobbiamo ancora sottolineare la grande duttilità recitativa che le consente di adeguarsi ad ogni esigenza di regia rimanendo però sempre una riconoscibilissima e personale interprete di ottima levatura, è in questo caso da evidenziare anche il più che ragguardevole contributo di un inedito Jude Law, davvero sorprendente nel ruolo del marito “umiliato e offeso”, imbruttito e incupito come non ci saremmo mai aspettati che potesse accadere di vederlo, perfetto nel disegnare un alto e ingrigito funzionario dello stato, ligio ai cerimoniali persino nel talamo, che srotola come fosse una reliquia un profilattico conservato con cura nella sua scatola prima di fare sesso con la moglie. Il suo Karenin così perfettamente connotato, assiste muto ed impotente alla caduta della bellissima moglie che si lascia irretire e travolgere dalle lusinghe del figlio della contessa Vronsky, il fascinoso, biondissimo e fatale Aleksej, portatore di eros e thanatos e promesso sposo della giovane sorella della cognata di Anna, che ha il fisico poderoso e il volto angelicato di Aaron Johnson (lezioso quanto basta per il ruolo, ma comunque fra i tre protagonisti il più legnoso e il meno interessante).
Basta un giro di valzer e una mazurca nella sala affollata fra tableau vivant e coreografie meticolosamente studiate nei passi e nei dettagliati movimenti dei corpi e degli sguardi, a far sì che la reputazione di lei sia definitivamente perduta. E’ in quella lunga sequenza del ballo che Karenina e Vronskj si confessano reciprocamente e tacitamente il proprio amore, rendendolo di pubblico dominio senza nemmeno il bisogno della parola, in un interminabile carrello circolare che esalta la prorompente fisicità dei due futuri amanti fatta di un gioco incrociato di sguardi, mani e braccia che sembra unire i loro corpi quasi in un amplesso che ben esprime il senso della passione e dell’attrazione e che Wright riesce a far diventare ancora più evidente con l’avvolgente mobilità della sua macchina da presa che segue il movimento sinuoso di un valzer turbinante e fa diventare tangibile anche allo spettatore, l’idea dell’irresistibile attrazione che unisce quell’uomo a quella donna, capace di vincere ogni resistenza, che porterà Anna inesorabilmente verso il suo destino, mente il militare non potrà che giovarsene e migliorare così la sua già solida reputazione di dongiovanni, poiché le regole perverse di quell’aristocrazia, sanciscono che il passare proprio tra le braccia di una donna sposata sia per un uomo un ambito trofeo e la meta più agognata.
Anna però è anche madre e questo non va dimenticato: i figli non devono subire l’onta , nemmeno quella nata dalla relazione adulterina che Karenin accetta di affiliarsi per consentirle di avere un futuro. Un’altra privazione dunque, e l’espiazione per lei non sarà di conseguenza più possibile (se ne rende tragicamente conto nel palco del teatro quando nemmeno Vronsky corre a soccorrerla). Non le resta quindi che una sconsolata e drastica soluzione, quella di scomparire definitivamente gettandosi consapevolmente sotto il treno (un altro appuntamento con la morte, anticipato quasi in apertura dal trasalimento funesto della donna che assiste in stazione all’incidente del fuochista finito stritolato dalle ruote del convoglio).
"Con Keira Knightley ci intendiamo alla perfezione e ci capiamo molto bene: questo perchè entrambi, da piccoli, eravamo dislessici e il cervello di un dislessico si sviluppa in maniera differente, perchè deve trovare il proprio percorso verso la realtà. Abbiamo una nostra visione personale della realtà, molto anticonformista rispetto a quella degli altri. Non abbiamo bisogno di utilizzare troppe parole e sappiamo entrambi quello che vogliamo!. (Joe Wright)
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