Regia di Joe Wright vedi scheda film
Trentaseiesima trasposizione cinematografica del grande romanzo tolstoiano, onusta di premi e nomination, al di là dei suoi meriti modesti, almeno secondo me.
Il regista Joe Wright ha individuato, fra i molti temi presenti in quel capolavoro senza tempo, i due sui quali costruire il proprio film: quello, scontato, dell’adulterio di Anna (Keira Knightley), sullo sfondo della pettegola e perbenista società dell’alta borghesia di Pietroburgo e di Mosca; quello della contrapposizione città-campagna implicita nella rappresentazione della comunità agricola di Konstantin Levin (Domhnall Gleeson), che la governa – applicando princìpi di giustizia e di uguaglianza – insieme alla moglie Kitty (Alicia Vikander), per far vivere nella realtà l’aspirazione “utopica”, secondo la quale famiglia e società trovano nei valori della cristiana solidarietà il fondamento della loro saldezza.
Il pensiero tolstoiano emerge – molto schematizzato – grazie all’impianto scenico del film, in cui consiste anche la sua originalità: sullo sfondo delle quinte di un teatro si recita la commedia dell’ipocrisia della vita cittadina, dove uomini e donne non vivono secondo le loro naturali inclinazioni e dove i matrimoni vengono decisi in base a calcoli di convenienza: lì si è giudicati non per ciò che si è, ma per ciò che si mostra di sé. La finzione teatrale appare particolarmente adatta alla rappresentazione di quell’ambiente in cui l’aristocrazia feudale e quella delle cariche ministeriali recitano sullo stesso proscenio - di cui cambiano solo gli sfondi - danzando, partecipando ai ricevimenti e dilettandosi fra mille pettegolezzi.
A quella società appartengono Anna, suo marito Aleksei Aleksandrovic Karenin (Jude Law) e anche il suo amante Aleksej Wronskij (Aaron Taylor-Johnson) così come le dame che vedono, e condannano senza appello, le violazioni delle regole non scritte dell’appartenenza privilegiata a quell'ambiente.
La passione amorosa di Anna e Wronskij, fin dall’inizio accompagnata da sinistri e simbolici presagi (l’uomo sotto il treno, la morte della delicata cavallina Frou Frou, stremata dai colpi di Wronskij), si sviluppa fra la generale riprovazione del comportamento di lei – che non vorrebbe nascondersi e rivendica la libertà di amare alla luce del sole – costretta a ritirarsi in un luogo isolato per portare a termine la nuova gravidanza, mentre il marito cerca di impedirle di rivedere il bambino nato dal loro matrimonio.
Del tutto assente invece la tolstoiana riflessione sul processo di trasformazione dell’amore passionale, che invano la donna vorrebbe mantenere intatto sottraendolo alla routine prosaica della vita di ogni giorno, logorando con i suoi sospetti e le sue recriminazioni l’amore di Wronskij.
La scelta del regista, legittima di per sé, impoverisce il personaggio delle sue contraddittorie inquietudini, non discostandolo troppo, dunque, da quello stereotipato di molti precedenti film ispirati dallo stesso romanzo.
Il secondo tema sviluppato dal romanzo risulta molto schiacciato dal primo e ha come protagonista Konstantin Levin, amico d’infanzia di Stiva (Matthew MacFadyen), fratello di Anna, nonché da sempre innamorato di Kitty.
Presente alla festa danzante, e testimone del nascere dell’amore fra Anna e Wronskij, se ne era allontanato disgustato e si era imbattuto nella cruda realtà delle condizioni di degradante miseria e di malattia di Stiva che – nel disprezzo della buona società – si era nascosto affidandosi alle cure pietose di un’ex prostituta.
Da quel momento Levin, aveva deciso di dedicarsi completamente a combattere l’ingiustizia nel mondo russo riportando, almeno dentro la sua proprietà quel principio di uguaglianza che solo può giustificare il possesso della terra e dei suoi frutti.
Kitty, che da sempre egli amava, fu con lui, alleata tenace e persuasa della bontà di quella causa.
Nella realtà della campagna, dove nessuno recitava, tutti, proprietari compresi, partecipavano col loro lavoro al progetto di rigenerazione collettiva del quale erano pienamente convinti.
il film può da questo momento essere girato all’aria aperta, nella bellezza della campagna, essendo la natura incompatibile con l’artificio, le menzogne, i perbenismi, i tradimenti.
Tolstoij, per la nostra fortuna di lettori, è molto meno schematico del regista che semplifica e contrappone, in modo poco dubitativo, ciò che nel romanzo è più complesso e nel quale – proprio come Anna – anche Levin vive fra dubbi e contraddizioni.
Joe Wright tenta, perciò, una operazione culturale originale, cercando di avvicinare agli spettatori, attraverso l’invenzione dei due piani – in alto il proscenio teatrale e in basso la vita autentica – interessanti aspetti del pensiero tolstoiano. Che ci sia pienamente riuscito è da discutere.
Lo spettacolo si lascia vedere, comunque, e può avere la funzione propedeutica di invitare alla lettura di un romanzo di grande densità meditativa che arricchisce da sempre chi lo avvicina...
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