Regia di Manetti Bros. vedi scheda film
Miglior attore, il pube depilato e generosamente inquadrato in primissimo piano di Francesca Cuttica che recita nuda per quasi tutto il film. E’ così carino con la ciccetta delle grandi labbra che spunta biricchina che viene voglia per una volta di rivalutare la conclamata inutilità del 3D . Prima e dopo il momento epifanico, il nulla.
Paura 3D, dispiace dirlo per l’affetto ai fratelli Manetti, onesti prosecutori di una tradizione di italico cinema di genere ormai ridotto al lumicino, è un brutto film che non risolleva affatto le sorti del cinema che fu dei Bava e degli Argento di troppo tempo fa, piuttosto ratifica in maniera indelebile la mancanza di idee che attanaglia senza scampo chi si avvicina a questo tipo di cinema in Italia, come se dai due alfieri dell’orrido che sconvolsero il mondo non rimanesse che un labile ricordo confuso.
Suona beffardo il ricorso ad un omaggio al genio di Bava nel momento in cui un protagonista esce annoiato da un’aula in cui si tiene una lezione di cinema sul Maestro. “L’uso pittorico ed espressionista del colore” “La dimensione del sogno del cinema di Bava” dice il docente. Ecco, il senso di questo film si raggela attorno a questo cortocircuito: mentre si enunciano le caratteristiche di un artista, chi dovrebbe imparare esce e se ne va. E il risultato è ovviamente desolante.
Il film è liberamente ispirato alla storia della ragazza austriaca Natascha Kampusch. Tre ragazzi romani, Marco, Simone e Ale ( Lorenzo Pedrotti, Domenico Diele, Claudio Di Biagio), entrano in possesso delle chiavi della villa del mellifluo marchese Lanzi (Peppe Servillo) che si suppone essere fuori Italia ad un raduno di Rolls Royce per un fine settimana. Decidono di svaccare alla grande in una casa che dal vivo non vedranno mai neppure sul periodico Casabella. Purtroppo la villa cela un mistero, nelle cantine vive segregata una ragazza, completamente nuda , Sabrina (Francesca Cuttica) e proprio nel momento in i tre scoprono la reclusa il marchese torna a casa. Ovviamente è un serial killer psicopatico e la caccia ai ragazzi intrusi darà i suoi frutti. Effetti speciali di Stivaletti. Musica rap metropolitana poiché il tema – questo maledetto tema che affossa tutti i film – è il confronto tra la suburbia capitolina senza speranza e la chimera di passare un weekend da leoni per aver qualcosa da raccontare agli amici e capace di lenire un po’ la mancanza di orizzonti – visivi, sociali, emotivi - che i palazzi popolari alveare provocano nei loro fagocitati abitanti.
Occhéi il contesto – l’ambizione – è sviscerato, nulla da aggiungere al classico schema del cinema slasher e della relazione empia borghesia=depravazione. Nella normalità – demente – si aggira un mostro dall’aspetto gentile che invece è frutto di quella società demente non più in grado di difendersi dalle apparenze. Come è esplicato in maniera sublime nei titoli di testa, splendidi ed evocativi del pittore Sergio Gazzo , aspettativa che sarà completamente disattesa nel film.
Primo tempo tutto dedicato alla composizione delle personalità, le motivazioni dei gesti, il contesto. E far passare un po’ di tempo tra frizzi e lazzi da commedia giocata sullo spiccato sense of humor de borgata dei tre massacrandi. E se questa è la parte più interessante, ho detto tutto. Quando nel secondo tempo finalmente si arriva al sodo ciò che viene a mancare è tutto ciò che separa un buon film di genere (horror) da uno non buono. Si assommano tutti i difetti più classici dei film amatoriali: tempi sbagliati, reazioni emotive sconclusionate, recitazione approssimativa, ritmo zoppicante, soggettive che non sono soggettive e scontri fisici patetici. Quello che filtra è una generale incuria e piattezza della messa in scena che sconfina nell’estetica da sceneggiato televisivo con una conclamata superficialità di fondo nella gestione della storia. Non basta il già citato pube depilato in primo piano, non bastano due inquadrature sghembe o una testa mozzata per rendere interessante un film horror. Le poche idee e ben confuse che attanagliano la scrittura del film sono un rimasticamento delle istanze già defunte del torture porn ma senza la ricerca dell’estetica del genere o quanto meno di una loro rielaborazione.
Sembrava mancare solo l’overacting ma in zona Cesarini, nel telefonato finale a sorpresa nel quale come d’ordinanza la vittima diventa cacciatore, si assiste all’esagerazione caricaturale della rappresentazione della follia. Paura 3D è un film nato vecchio, senza un’identità stilistica e formale. Dispiace per Peppe Servillo capace di donare una nota di recitazione che nella confusione si perde. Dispiace per i Manetti Bros. Dispiace per una tradizione di cinema di genere costantemente tradita proprio da chi dovrebbe rinverdirne i fasti.
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