Regia di Kevin McDonald vedi scheda film
Recensione di uno a cui non piace il reggae. O meglio, non gli piaceva prima che vedesse questo film. E scoprisse che quel genere musicale è un evento storico, e questo non tanto per le sue ripercussioni sulle mode giovanili e le correnti di pensiero di un’epoca, quanto per il fatto di essere l’emblema di tutto ciò che, semplicemente, accade, che ha origini confuse ed avviene all’improvviso, senza un apparente motivo. Tali sono i fenomeni che sfidano la logica facendo combaciare gli opposti, ed affidando alla casualità la missione di compiere miracoli. L’unicità è la prerogativa delle cose contraddittorie e completamente inspiegabili. Bob era per metà bianco, e per metà nero, figlio di una giamaicana e di un inglese. E forse è stato l’effetto di una distrazione, di una mano fatta scivolare mollemente sulle corde di una chitarra, se è nato quell’accordo vibrato e pulsante che è l’anima ritmica di quella straordinaria invenzione, una magica fusione di folk, di rhythm & blues, e di tanto altro ancora. Il documentario di Kevin Macdonald entra nelle fibre di un’idea bellissima e impossibile, che è il principio dell’amore universale tradotto in melodia. Bob cantava l’unità del mondo, di tutti i popoli, con parole prese dalla Bibbia, ma interpretate a modo suo, perché la fede è anzitutto una questione individuale, che vede nella propria libertà la via che conduce alla rivelazione. Coloro che l’hanno conosciuto di persona lo raccontano come un uomo alla costante ricerca non di conferme, ma di nuove premesse da cui ripartire per aggiungere un altro capitolo al suo discorso rivoluzionario, scritto e riscritto sempre con lo stesso cuore, ma con accenti diversi, ora politici, ora religiosi, ora sentimentali. Le testimonianze rese a voce dai suoi familiari, colleghi, ed amici ci consentono di guardare dietro le quinte di qual carisma da ragazzaccio ribelle – che talvolta si direbbe costruito ad arte per coprire i lati meno nobili del suo carattere – e di cogliere le radici di un successo scaturito dall’infelicità, dal desiderio di rivalsa, dalla necessità di dare un’identità spirituale a quel corpo minuto da meticcio, respinto dal padre e guardato con sospetto dai suoi compaesani. L’infanzia travagliata non basta forse a rendere ragione di un percorso artistico così originale ed intenso, carico di un’inesauribile voglia di gridare, ma sempre contenuta entro i morbidi contorni della mitezza interiore e dell’armonia della forma. Un margine di mistero circonda quella creatività originale ed inquieta, eppure saldamente ancorata al codice etico e rituale della dottrina cristiana del rastafarianesimo, un culto talmente radicato nella cultura africana da venerare l’imperatore etiope Hailé Selassié come la reincarnazione del Messia. Genio e disciplina si incontrano nel bisogno di parlare a tutti, facendo risuonare una voce che arrivi nei punti più lontani, anche a chi non è abituato a sentirsi chiamare per nome, né a ricevere un invito così importante: si tratta di uscire dal guscio e farsi coraggio, di aprirsi al mondo e prendere in mano il proprio destino, perché ognuno è importante, ma nessuno conta niente se non si sta insieme e non ci si sostiene a vicenda. Il film si chiude sulle note di One Love, l’inno ad una pace che non richiede nessun particolare impegno, perché è fondata sull’atto, umile e naturale, di guardarsi intorno e riconoscere, nel prossimo, uno specchio della propria imperfezione: una condizione che ci accomuna tutti, e che, in quanto tale, deve essere trattata con benevolenza, e non può intaccare la speranza.
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