Regia di John Hillcoat vedi scheda film
Prima di tutto, una cosa che mi è balzata all’occhio spontaneamente è il sistema degli attori. Lawless è la prova generale del nuovo divismo americano, composto da attori tra i venticinque e i trentacinque anni: offe la vera chance della carriera a Shia LaBeouf dopo troppe investiture dall’alto (Indiana Jones e Wall Street), alle prese con un ruolo costruito e degno di un Al Pacino degli anni verdi; consolida Tom Hardy – e per un attimo si viene sfiorati dall’idea di avere a che fare con il Marlon Brando del duemila (è il migliore in campo) – e Jessica Chastain, vera e propria dea della recitazione con il fisique du role della diva; crea un altro interessante ritrattino nel già importante percorso artistico di Mia Wasikowska; afferma Gary Oldman e Guy Pearce, di una o due generazioni precedenti, come modelli di riferimento.
Il tutto all’interno di una confezione d’antan (l’America proibizionista) che abbiamo già visto mille volte e di una storia che più convenzionale non si può di ascesa e declino di fuorilegge implicati nel traffico di alcol e in una guerra senza esclusioni di colpi con avversari negli ambienti criminali e in quelli delle forze dell’ordine. Un onesto spettatore medio non si rende naturalmente (e fortunatamente) conto della vastità di richiami e di citazioni contenuti nel film, che attinge ad un immaginario immenso che comprende, giusto per far due nomi, Gangster Story e Il bandito e la madama, ma, al di là del coinvolgimento e del divertimento anche evidente, il problema del film è la sua prevedibilità (che forse farà felici sia gli adepti del generi che i giovani fruitori suggestionati dalle tematiche da romanzo criminale in costume) riscontrabile quasi ovunque (eccettuato il curioso destino del Forrest di Tom Hardy, “immortale” come leggenda locale impone) e il meccanico progredire dell’intreccio tutto sommato abbastanza semplice e pure poco appassionante in verità.
Dalla sua, Lawless ha d’altra parte un’indubbia abilità nel catturare lo spettatore medio attraverso la consuetudine del sangue (che scorre a gogò) e la non nascosta economia dei sentimenti (le due relazioni d’amore, l’ambiguità sessuale del vice sceriffo), nonché mediante l’annunciazione (ma covo dubbi sull’effettiva messa in pratica) del tono epico e nostalgico, romantico ed avvincente (in realtà il film è un po’ troppo patinato e manierista e trova un vero apice di tensione e di pathos solo in due occasioni, restando sempre poco tagliente come invece le lame che pullulano nella storia). Ha un suo punto di forza che è al contempo anche punto debole nel personaggio di Guy Pearce, sicuramente inquietante e crudele, ma anche eccessivamente caricaturale. Del boss dello sfuggente Gary Oldman avremmo voluto sapere di più. Ma sono problemi della sceneggiatura, interessante ma non sempre puntuale, scritta dal mitologico cantautore Nick Cave che ha messo mano anche alla colonna sonora.
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