Regia di Sam Mendes vedi scheda film
Aperto da una sequenza action fulminante, percorsa da costanti tensioni sollecitate da un ritmo indiavolato e impetuoso, il nuovo 007, Skyfall, pensato e realizzato per festeggiare il cinquantesimo dalla prima apparizione cinematografica di James Bond, parte come meglio non si potrebbe desiderare. L’attenzione è al massimo, l’adrenalina è in continuo crescendo, gli occhi appagati dagli spettacolari ansiogeni arabeschi in moto (schizzato) scagliati con elegante furore sullo schermo.
La chiusura risolutiva, purtroppo, eccessivamente allungata, innescata da premesse altamente inverosimili, e attraversata da situazioni sempre più improbabili (anche per i più bendisposti), vanifica l’ottimo incipit e le buone intenzioni.
L'ansia (da prestazione) deve aver evidentemente prodotto un mezzo passo falso. La questione inizia a prendere forma man mano che la storia prosegue, le carte (più o meno) rivelate, i disegni svelati, i fili della narrazione sciolti dal giocoso groviglio tipicamente spy e riavvolti nuovamente a intessere l’intreccio con cui tenere sospesa (anche in maniera artefatta) la faccenda e desto l’interesse dello spettatore. Invero, la moltitudine di ingredienti buttati un po’ confusamente nel calderone (la trama e le sue svolte, certo; ma soprattutto i risvolti sociopolitici riguardanti l’”antiquato” universo spionistico e quelli personali, di M e di Bond), spesso travestiti da metafore talora elementari e sempre poco ispirate (i topi, le ombre, le radici), rende un po’ lenta, farraginosa la fruizione del film.
Ciò che appare chiaro è che i propositi degli sceneggiatori erano quelli di dare vita ad una puntata “speciale”: così si spiegano le gustose “novità” rappresentate dall’introduzione di “vecchi” volti appartenenti al mondo di 007, quali la frizzante e pericolosa (per Bond) Moneypenny (interpretata dalla pantera Naomie Harris, discreta quando duetta con Craig, meno abile nelle scene di azione), un giovanissimo brillante Q (Ben Whishaw, molto convincente), e colui che prenderà il posto della dipartita M (un cambio della guardia inatteso), il burocrate “operativo” Mallory (Ralph Fiennes); tutti inseriti per rinvigorire la linea bondiana (che necessita per la sua stessa natura di continui rinnovamenti), ed al contempo per gettare nuove luci sul mito dell’agente segreto per eccellenza.
Luci che trovano argomentazione sia nel presente di Bond, mai apparso così fragile e preda di dipendenze, sia nel passato, cui si riferisce il titolo della pellicola, e collegato al finale. Ma è proprio questo collegamento - meramente pretestuoso, approssimativo, mal gestito (e poco digeribile) - a mostrare le crepe di un copione debole e incostante che accumula troppi fastelli per poi bruciarli con delle scelte ardite che terminano in una vampata conclusiva - tenuta viva da acceleranti artificiosi - che è solo fumo per gli occhi.
Per fortuna che a salvare la baracca ci pensano le grandiose presenze di Judi Dench (regale, di un’intensità mostruosa, comme d’habitude, la sua performance), per cui pare oltremodo difficile vedere il prossimo 007 senza di lei (il sostituto, Ralph Fiennes, è sì bravo però certamente non alla sua altezza), e di Javier Bardem, che tratteggia in modo esemplare e degno di tutta l’ammirazione possibile un cattivo magnifico - biondo, cotonato, psicopatico, tragico - che si pappa in un sol boccone occhi azzurri-Craig (compatto e deciso, viaggia in automatico con il suo Bond rigido e muscolare dallo sguardo vitreo, fisso - a cui oramai ci si è abituati). In un ruolo un poco (tanto, in verità) incomprensibile c’è quel vecchio marpione di Albert Finney, mentre la Bond girl di turno, Bérénice Marlohe, ha una parte di puro contorno non molto sensata ed affatto rilevante.
Il regista, Sam Mendes, nonostante una carriera di alti e bassi, sa il fatto suo: non che incida granché, ma si difende, e il meglio lo dà nella concitazione delle scene di azione basate sul “modello” Bourne (oltre a quella iniziale, da notare anche il combattimento/ballo tra le “ombre” - Craig vs. Ola Rapace - sullo sfondo pluri-illuminato della Shanghai notturna). La discreta colonna sonora, enfatica e tonante come di consueto, fornisce il suo apporto (forte anche dell’efficace pezzo da hit di Adele posto nei deliziosi titoli di testa) così come risultano assai funzionali la splendida fotografia di Roger Deakins e il montaggio frenetico di Stuart Baird.
Skyfall, pur penalizzato da quel brutto finale colmo di assurdità, si lascia vedere; ed avvince, almeno per buona parte, eppure ha tutta l’aria di un’occasione sprecata: il cinquantenario meritava di meglio.
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