Regia di Rodney Ascher vedi scheda film
E' vero.
Ho sempre indicato Le Ali della Libertà come mio film preferito fino al 2003.
Poi quell'anno è arrivato un coreano con un martello e un segreto che era meglio non scoprire.
Ed ho preso lui.
Poi due anni fa è arrivato un regista teatrale che ha deciso di mettere New York dentro un capannone, e non solo New York, ma anche la sua vita e la vita di tutti noi, poi è arrivato quel regista teatrale.
Ed ho preso lui.
Per, credo, non lasciarlo mai più.
Ma se c'è un film, uno solo, che posso vedere all'infinito, uno che se becco mezza scena poi non riesco a staccarmi questo è Shining.
Sì, Shining è il film nell'intera (mia) storia cinematografica che posso vedere all'infinito, senza soffrire (come SNY), senza annoiarmi nel sapere ogni battuta (come OB), ma solo goderne.
Di ogni inquadratura, di ogni movimento di macchina, di ogni sguardo torvo di Jack, di ogni sguardo impaurito e amorevole di Wendy, di ogni tremolio di Danny.
Credevo di conoscerlo quasi perfettamente.
Poi vedi Room 237 e capisci che di Shining non sai un cazzo, per dirla da frate cappuccino.
O forse no, non è vero che non ne sai niente.
Ma sei rimasto comunque in superficie.
Room 237 è, per chi ama Shining, uno straordinario documentario che analizza il capo d'opera di Kubrick in una maniera talmente capillare, profonda e maniacale che in confronto le interpretazioni della Divina Commedia che il mio caro ex prof Carmine provava ad insegnarmi(ci) (tra l'altro ricordo quei momenti come forse gli unici nel mio intero percorso scolastico in cui veramente volevo imparare qualcosa, probabilmente perchè quei versi avevano una potenza e una forza tale da superare qualsiasi immaturità o disagio), in confronto, dicevo, l'esegesi della Divina Commedia pare un "bello!" piazzato nel commento di un post su facebook.
Diversi approcci, diverse voci, diversi studiosi che analizzano Shining in diversi aspetti, da diverse angolazioni.
C'è quello che lo vede come metafora dell'Olocausto, quello che crede parli del massacro dei Nativi Americani, quello che dimostra quanto Shining, o parte di esso, sia la confessione di Kubrick nell'aver "aiutato" gli Usa nel montare le finte immagini dell' Allunaggio, quella, una donna, che lo racconta in modo geometrico, a mappe, quello che ci legge dentro immagini subliminali sessuali, insomma, di tutto.
E tutto con un approccio affatto pedante o troppo sicuro di sè, anzi, abbastanza umile, l'approccio di chi vuole raccontarti semplici supposizioni, interpretazioni, idee, a volta strampalate, altre quasi oggettivamente dimostrabili ma sempre capaci, anche la più assurda, di metterti un piccolo dubbio, una certa inquietudine, un brivido.
Kubrick era un genio, caspita, lo era quasi oggettivamente.
E quindi pensare che Shining sia solo Shining è troppo banale, impossibile.
E così ecco quel 42 che appare qua e là, quel 42 che nel secolo scorso rappresenta una data particolare.
Ecco quelle dissolvenze che nell'incrociarsi formano cose incredibili, come il custode che diventa un gigante o l'hotel che perde metà della sua grandezza.
O quegli errori veri o presunti tali della tv senza fili, dell'automobile che sta per investire i personaggi, dell'irreale quantità di bagagli.
(Poi, e questo c'entra poco col doc, vedo Wendy entrare in una hall blu piena di scheletri.
Beh, mi si gela il sangue, io quella scena non l'ho mai vista. Scopro così che la versione non americana ha 24 minuti in meno, incredibile.)
Si va avanti e ci sono teorie incredibili, splendide, affascinanti.
Come quel Cucciolo che scompare dall'armadio dopo la prima visione del Male nell'albergo da parte di Danny luccicante (come se avesse perduto in quel momento la sua infanzia ed innocenza).
Tutta la lunga teoria sul Minotauro (ricordiamo che il labirinto è aggiunta di Kubrick al libro) con quello sguardo da toro di Jack.
Poi tutta la parte sopracitata dell'allunaggio che all'inizio ti sembra quasi comica ma più va avanti e più vengono i brividi con quel maglione dell'Apollo, con quella chiave che da Room può diventar Moon, con quella stanza che è, se ce n'è una, la stanza delle finzioni, delle allucinazioni.
E quello stesso 237 che è la distanza in migliaia di miglia tra la Terra e la Luna.
Che poi 2 x 3 x 7 = 42, sempre quello.
Come se Kubrick ci volesse dire "Ho dovuto farlo, ma è tutto finto, scopritelo da soli".
E poi le affascinanti traiettorie dei percorsi del triciclo di Danny, personalmente le sequenze più indimenticabili di Shining.
Quei percorsi che come in un sogno vanno da un piano dell'hotel all'altro, senza rispettare la minima verosimiglianza.
O quelle finestre che mostrano il cielo dove il cielo non dovrebbe essere.
E poi l'esperimento di mandare il film avanti e indietro contemporaneamente con quelle incredibili coincidenze che vengono così a formarsi.
Una, probabilmente la più stupida, è però quella più pazzesca, i baffetti di Jack.
Ma più che altro quello che è innegabile è che Shining sia un film che racconta di un massacro avvenuto tanto tempo prima
Un massacro che piano piano prova a venir prepotentemente fuori.
Il massacro della festa certo.
Ma anche il massacro della sua famiglia da parte del maggiordomo Grady.
E non so può entrarci qualcosa l'Olocausto.
E non so se può entrarci qualcosa il massacro degli Indiani.
Perchè magari si parla semplicemente del massacro alla festa o di quello di Grady.
Sta di fatto che noi quel mare di sangue vogliamo far finta comunque che non esista, vogliamo nasconderlo, dimenticarlo.
"Non mi ricordo di questa cosa" dice Grady a Jack quando quest'ultimo gli rivela che sa quello che ha fatto alla sua famiglia.
Già, non se lo ricorda.
O non se lo vuole ricordare.
O siamo noi che non ce lo vogliamo ricordare.
Quel massacro, qualsiasi esso sia.
E chiudiamo così l'ascensore, tutte le porte.
Per tenerlo lì dietro.
Ma tutto quel sangue riesce comunque a schizzare fuori, di lato, con gli ascensori chiusi.
Possiamo provare a contenerlo, costruire una diga.
Ma prima o poi uscirà fuori.
E ci inonderà.
E Danny, intanto, torna indietro nei suoi passi, nel suo passato.
Nel candore della neve.
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