Regia di Rodney Ascher vedi scheda film
Spulciare “Shining” fin nel suo più profondo anfratto è l’operazione di “Room 237”: scoprire i segreti, anche a costo di apparire complottisti, ma decodificare il fascino immortale di una pellicola che si considera ormai capolavoro artistico in assoluto. Questo documentario avvincente ed efficace (se non a tratti inquietante) non è il risultato di una semplice voglia di condannare il film horror più bello di tutti i tempi a una sequela di messaggi subliminali o codici misteriosi come si potrebbe pensare di una qualunque pubblicità, ma è un atto d’amore incontrastato che guarda nei dettagli di un’opera d’arte come si guarda il dettaglio di un dipinto o di un documento storico, cerca con tutte le forze di decifrare le coordinate per cui Kubrick ha voluto certe inquadrature in un certo modo, statiche ma vibranti di una tensione vera, che si fa tremore e paura (come uno degli intervistati, che racconta di essere stato sempre sulla punta della poltrona quando in sala vide “The Shining”). L’ovvia celebrazione di un capolavoro universalmente riconosciuto non sarebbe bastata, bisognava comprendere perché una storia normale si rivela alle nostre coscienze come un’esperienza di tale portata, potente e distruttiva.
Come sostengono molte voci narranti, “Shining” fu considerato un film minore del regista americano, fin troppo compresso in un genere, limitato da canoni già fin troppo noti, deludente in linea di massima, dopo il sottile fascino di film come “Barry Lyndon” o la prorompente audacia di “Arancia meccanica”. Era un film però destinato ad evolvere, e a diventare, senza esagerazioni, il migliore film del regista, un passo fondamentale per il cinema e per qualunque spettatore del mondo. Apprezzabile da chiunque, benché oggi abbia in parte perso la portata d’inquietudine che poteva avere nel 1980, “Shining” ancora inquieta, si insinua nella mente, fa riflettere. Come i grandi capolavori o i propri film preferiti, non detiene alcuna qualità oggettiva che lo renda tale, se non le capacità registiche di Kubrick. C’è solo una sensazione, una sensazione pura di disturbo e di malsania che entra impetuosamente nella memoria dello spettatore. Abbiamo di fronte il Male puro messo in scena in maniera definitiva.
“Room 237” non è necessario per farci capire che “Shining” è un capolavoro, ma è necessario per dare, in un certo senso, una motivazione razionale e ben comprensibile del perché “Shining” sia un capolavoro, dà diverse chiavi di lettura divertenti e inquietanti, ricche di trovate e di sottotesti, delle interpretazioni talvolte forzate, talvolta fin troppo ben argomentate, a volte straordinariamente affascinanti. Si diceva che a tratti il film sia complottista, anzi, è il caso di dire che è complottista ai massimi livelli; ma questo non è indice di una fruizione superficiale o di un’analisi banale del film. I “complotti” che racconta Rodney Ascher vogliono anche sfatare un mito, umanizzare profondamente Kubrick, mente brillante di grande genialità, renderlo un insidioso e quasi perfido controllore dei nostri sensi (come qualsiasi buon regista che si rispetti), e al tempo stesso mitizzare un film, ricordarcelo finanche nei suoi aspetti più reconditi, in ciò che nasconde dietro l’angolo, in ciò che forse Kubrick voleva dirci.
Quello che ne viene fuori è un articolata serie di interpretazioni che vanno dai riferimenti continui ai genocidi storici (dal nazismo allo sterminio degli indiani d’America) fino agli spunti autobiografici di un Kubrick che avrebbe diretto un video fasullo riguardante l’atterraggio degli astronauti americani sulla Luna, ancora prima di Armstrong: insomma, interpretazioni interessanti e da vero “cinefilo”, motivate con spiegazioni filosofiche e metaforiche assai stimolanti, a partire dal percorso di Danny con il maglione “Apollo 11” verso la “Moon Room 237”, fino alla ricostruzione della piantina dell’albergo, con tutte le inverosimiglianze che forse Kubrick rese volontariamente per immergerci in un mondo immaginario del terrore, in cui spazi così apparente razionali e perfetti ci nascondo irrazionalità e misteri. Come dice una delle voci narranti, “veniamo realmente catturati da questo albergo”, ci facciamo ipnotizzare.
A prescindere dalla pluralità delle interpretazioni, “Shining” si rivela oggetto di studio infinito e curioso, capace di ispirare la più diversa ipotesi, soggetto a pareri contrastanti, un film che è stato fin troppo classificato e limitato, e che “Room 237” finalmente innalza a ruolo di capolavoro e libera da qualsiasi vincolo. Un capolavoro che ci parla del Male del mondo, dell’uomo, della famiglia, di tutto quanto davvero, all’interno delle mura di un grande edificio, che “diventa” mondo, universo, ma anche la nostra mente, la nostra psiche, il nostro sogno cinematografico per eccellenza. Che questo documentario sia esagerato o no, non è il vero problema. Il problema è quanto possa destare in noi nuove inquietudini, quanto possa farci riconsiderare il film di Kubrick, quanto, alla fine, riesca a insidiare in noi vera paura. Anche di noi stessi.
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