Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
The Master è un film che conferma il genio cinematografico del suo regista, grazie ad una composizione delle immagini sempre curatissima ed affascinante, ma è anche una di quelle opere che necessitano di essere viste più di una volta per essere godute appieno, si sedimenta lentamente nell’animo dello spettatore e sprigiona la sua ricchezza tematica e formale lasciandolo spesso incantato.
Il film è un nuovo tassello di un discorso sull’America, sulla sua storia recente e sulle origini di molte problematiche che la riguardano al giorno d’oggi: qui il discorso si concentra sul rinnovamento psicologico e spirituale proposto da certe sette rappresentate nel film dall’immaginario movimento “The cause”, che molti hanno visto come una rappresentazione appena velata di Scientology di Ron Hubbard, anche se secondo me potrebbero esserci riferimenti anche ad altre scuole di pensiero, come ad esempio la Programmazione Neuro-Linguistica di Richard Bandler (le sedute terapeutiche proposte dal Master Philip S. Hoffman mi hanno ricordato i metodi di Bandler, che conosco meglio rispetto a quelli di Scientology). Comunque, il film offre soprattutto un memorabile confronto/scontro fra due personaggi, il citato Master Lancaster Dodd e il giovane reduce di guerra psicologicamente disturbato Freddie Quell che diviene rapidamente il suo braccio destro: la rappresentazione di un rapporto fra servo e padrone, basato sulle dinamiche di potere e di dominio che si instaurano progressivamente fra i due, è quanto di più convincente si sia visto al cinema in questo ambito da molti anni a questa parte, senz’altro degna di quanto ci fece vedere Joseph Losey in “The servant” del 1963 e priva dell’effettismo di molti altri film girati su questa falsariga. Certamente molto del merito per l’eccezionale rilievo dei due personaggi va ai rispettivi interpreti, un Joaquin Phoenix credibilissimo nella parte dell’ossessivo ed emaciato Freddy, così come un Philip Seymour Hoffman che rischia continuamente di rubargli la scena grazie al suo istrionismo perfettamente calibrato, ma la bravura del regista non va sottovalutata. Infatti, se il film gode di un ampio respiro narrativo per quasi tutta la sua durata, il merito è senz’altro di Anderson, qui regista, sceneggiatore e co-produttore. A questo proposito, francamente non capisco chi, fra i detrattori (che stavolta includono anche il prestigioso Roger Ebert, che l’ha recensito con sole due stelle e mezzo) ha sostenuto che il film soffra di una narrazione incoerente e poco curata, oppure che vi sarebbero confronti troppo dilatati e verbosi fra i due protagonisti. A smentire quest’ultima accusa basterebbe proprio la prima scena del “trattamento” che il Master propone a Freddy, in cui il “paziente” deve rivelare verità intime senza mai chiudere gli occhi, che a me è sembrata davvero intensa e piena di tensione, oltre che recitata magnificamente, e che a livello formale è sapientemente intercalata da diversi flashback che ci riportano a momenti cruciali della vita di Freddy quando corteggiava Doris, la donna che amò più di ogni altra, ma da cui fu separato a causa di un destino imprevedibile e a cui non riuscì a tornare alla fine della guerra per colpa dei suoi disturbi ossessivi. Magnifica anche la scena in cui Freddy si sottopone ad un “trattamento in parallelo” con il Master, che gli chiede di descrivere le sensazioni provate toccando pareti e finestre, con la moglie Peggy, che gli chiede di “cambiare il colore dei suoi occhi” con l’immaginazione e gli legge un brano di un romanzo pornografico, e con Clark, il genero del Master, che lo mette di fronte in maniera impietosa alla sua solitudine e al suo fallimento esistenziale: in questo caso, il montaggio in parallelo ha una fluidità suprema e il ritratto di Freddy si arricchisce di risonanze ulteriori; tuttavia, le scene memorabili sono parecchie e appare inutile elencarle tutte (ma almeno il violento scontro fra i due protagonisti in cella andrebbe senz’altro citato, primo momento in cui l'immagine del Master inizia ad appannarsi agli occhi adoranti di Freddie). E’ un film che va visto assolutamente al cinema per gustare le sfumature luministiche della fotografia calda e avvolgente dell’operatore rumeno Mihai Malaimare jr. (il film è stato girato nel formato 70 mm, ma sembra che siano poche le sale dove può realmente essere proiettato in quel formato). Fra l’altro, non sono d’accordo neppure con certi critici che hanno sostenuto che “i due protagonisti del film non evolvono per niente”: almeno nel caso di Freddy un’evoluzione mi sembra che ci sia dalle posizioni iniziali a quelle del finale, che giunge senz’altro in maniera un po’ troppo brusca e repentina, ma che personalmente posso interpretare solo alla luce di un’evoluzione interiore di Freddy e di una necessità personale di cambiamento (e non aggiungo altro per non spoilerare troppo). Fra gli altri membri del cast una lode va senz’altro ad Amy Adams nel ruolo di Peggy, moglie e motore segreto delle azioni del Master: un’attrice di notevole talento e presenza scenica, affiancata nei ruoli minori da attori perlopiù poco noti, fra cui si rivede la musa lynchiana Laura Dern.
Scandalosa la mancata considerazione da parte dell’Academy che decisamente non ama il cinema di Anderson, così come il Leone revocato a Venezia per stupide clausole del regolamento, di cui avevo parlato in una mia precedente playlist. Anderson ha confermato anche qui di avere talento da vendere, e ci si augura che per il futuro gli studios continuino a concedergli piena libertà creativa, perché The master al box-office americano è stato un mezzo fiasco, con soli 16 milioni di dollari incassati.
voto 10/10
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