Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Paul Thomas Anderson è quindi tornato sull’argomento uomo-spiritualità come è stato nello strepitoso “Il Petroliere” e “Magnolia” sempre con risultati eclatanti. La sua regia è quadrata e potente come lo è il film, come i suoi due personaggi, di cui in sincerità è difficile stabilire il protagonista e chi la spalla.
Puro impulso, come un animale. Freddie Quell non filtra le azioni con la ragione: è puro impulso. Lo spettatore cerca una spiegazione in quello che fa, ma la scena cambia e ancora sei fermo a riflettere perché lui ha agito in quel modo e non sai darti la risposta. Per esempio lui viene invitato dal suo mentore Lancaster Dodd a dare libero sfogo in sella ad una moto e quando si lancia non si ferma più, va va e si perde all’orizzonte. Inutile chiedersi dove vuole arrivare, basta dargli la possibilità di dare sfogo al suo impeto e lo perdi. Tanto poi ritorna, ritorna come un cagnolino a cui hai aperto il cancello ed è lì scodinzolante come nulla sia successo. Ed invece succede sempre qualcosa, perché la personalità disturbata di Freddie non sa reprimere le sue voglie, il suo istinto.
Il film inizia e finisce con il mare, azzurro e schiumoso, come i suoi occhi e come il suo carattere: si ferma mai il mare? Neanche lui. Eppure in cuore (ce l’ha?) ha un punto di riferimento fisso che non lo abbandona ed è una dolce e giovane ragazza che lo aspetta al suo paese. Il suo sogno è tornare e finalmente sposarla, perché forse rappresenta una zona di amore e affetto vero, sentimenti assenti nella sua vita. Freddie vaga per l’America dopo che la guerra mondiale lo ha totalmente rovinato psicologicamente, trova lavori diversi ma scappa sempre via in quanto ne combina sempre una, a volte scappa anche inseguito da chi ha subito da lui un torto. La sua vita è anche condizionata dall’uso esagerato di bevande fatte in maniera rudimentale e artigianale ma efficaci dal punto di vista lisergico, delle vere bombe liquide, intrugli; dopo ogni pieno acquista più coraggio (come se ne avesse bisogno…) e quindi può continuare con la sua spavalda vita. Ma è lampante che è una persona in cerca di sollievo, un’anima che cerca qualcosa che dia serenità alla sua esistenza. Il suo malessere si traduce in gesti sempre eclatanti: simula un rapporto sessuale con una statua di sabbia, si masturba in riva al mare, spaccando una noce di cocco scherza fintando l’amputazione del braccio, arriva ad una colluttazione con un cliente del suo momentaneo lavoro di fotografo. Ma…“Sei il ragazzo più coraggioso che io abbia mai visto” dice di lui il suo maestro Dodd.
Ed eccoci a parlare dell’altra metà del film, a Lancaster Dodd, il Maestro, autodefinitosi anche scrittore, filosofo e dottore, ”innanzitutto un uomo”: altro personaggio complesso ma non irrazionale. The Master è scaltro, intelligente e grande affabulatore, è il capo e l’inventore di una dottrina che ricorda chiaramente Dianetics. Come in quella cultura, egli cura le persone sia nella mente che nel corpo e queste ne rimangono affascinate e attratte, egli riesce a creare un proselitismo di fedeli in molte parti dell’America e, comodamente, vive con i loro contributi, nelle loro case, sfruttando la loro buonafede. Egli parla, parla, parla e convince e se c’è qualcuno scettico che osa controbatterlo ci pensa lo sbandato e violento Freddie a zittirlo con le maniere forti. Quando parla sembra veramente convincente, fino al punto che, come dice suo figlio, si convince lui stesso, anche se inventa tutto sul momento, ogni volta con discorsi diversi: “Sta inventando tutto di volta in volta, te ne rendi conto?”
Uno sembra la metà dell’altro, tanta è la simbiosi e l’attrazione reciproca. Come due calamite, dopo qualche divergenza o dopo un allontanamento (normale per Freddie) eccoli come due innamorati che non sanno lasciarsi. I loro dialoghi sono da antologia della recitazione, godibile solo, purtroppo, dal punto di vista gestuale e sarà una goduria orgasmica poterli sentire in originale: Joaquin Phoenix con quel labbro da cui le parole escono di sbieco e Philip Seymour Hoffman che domina la scena con il suo corpo ingombrante e il dito indice agitato verso l’interlocutore. Da questi confronti nasce la scena madre del colloquio iniziatorio, in cui il maestro scava con domande sempre più incalzanti nell’anima, nel cuore e nella psiche dello sbandato Freddie in un crescendo emotivo che porta quindi al cedimento, all’abbandono totale e alla resa psicologica: in questa maniera il reduce di guerra diventa il suo braccio operativo e il suo discepolo violento, completamente inebriato dalle teorie della dottrina. Ma non è tutto merito dell’abilità del maestro e della sua capacità affabulatoria convincente, molta parte gioca il bisogno di trovare un rifugio materiale e mentale da parte di Freddie, per cui lui entra in quella comunità ma anche in quella famiglia, dove nonostante la diffidenza della moglie (una brava come sempre Amy Adams) e del figlio viene difeso sempre dal capo. La forte attrazione è insomma reciproca e a volte si ha l’impressione di assistere a scene tra amanti, a volte tra servo e padrone.
Sicuramente il regista lascia andare i due attori sul set liberi di dare sfogo al loro talento e al loro istinto animalesco e l’insieme dà un risultato straordinario, accentuato da una sceneggiatura vibrante e possente, una musica ora ossessionante ora di tensione crescente, oppure con il contrasto tra una dolce canzone e la forza verbale dei discorsi di Lancaster. Paul Thomas Anderson è quindi tornato sull’argomento uomo-spiritualità come è stato nello strepitoso “Il Petroliere” e “Magnolia” sempre con risultati eclatanti. La sua regia è quadrata e potente come lo è il film, come i suoi due personaggi, di cui in sincerità è difficile stabilire il protagonista e chi la spalla, un po’ come successe tra il Re Giorgio VI e Lionel Logue ne “Il Discorso del Re”.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta