Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Il prestigio di un regista non si misura solamente dalle reazioni suscitate dalla visione dei suoi film ma anche dall’interesse con cui la comunità cinefila ne segue le varie ipotesi progettuali. In questo l’attenzione spasmodica provocato dalla notizia di un nuovo film firmato PTh Anderson “The Master” incentrato sulla figura di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, varrebbe da sola ad inserire il suo regista nell’olimpo degli autori. Nella fattispecie è certo che almeno negli Stati Uniti ad infiammare gli animi abbia contribuito la scelta di un soggetto controverso e duramente criticato per i metodi di organizzazione interna e di proselitismo. Sarà stata la scoperta di una sostanziale mancanza di riferimenti ed aneddoti collegati a quel movimento ed al suo ideatore ad aver raffreddato l’entusiasmo nei confronti del film, sottovalutando in qualche modo il lavoro di un regista come Anderson, poco interessato a realizzare la "cinebiografia" del personaggio ma piuttosto intenzionato ad utilizzarne il ritorno carismatico ed il periodo storico che lo riguarda per allargare il discorso ad una certa idea di americanità. Hubbard nella persona di Lancaster Dodd (Philipp Seymour Hoffmann) non è solo il sacerdote di un nuovo credo, ma piuttosto il portavoce del verbo che mette ordine al caos in un paese che ha appena perso la sua giovinezza nel corso di una guerra di cui ancora non capisce il senso.
Ma non solo, perché gli anni 50 del film segnano la cesura con un certo tipo di mentalità vittoriana costretta di lì a poco a fare i conti con la propria ipocrisia. In questo senso “The Master” attraverso il rapporto tra Dodd e Freddie Quell, il reduce di cui il primo si occupa e forse si invaghisce, si può considerare un film sulla repressione, morale, sessuale, sociale di una comunità. Ad esserne schiavo in una maniera che è paradossale rispetto alle sue credenziali è innanzitutto Dodd, generalmente compassato e padrone della situazione ma in realtà irascibile ed isterico quando viene messo alle strette con domande ed osservazioni che potrebbero metterne in dubbio leadership e dogma; lo è la figlia, appena sposata ma incapace di mettere a freno l’attrazione per il nuovo arrivato, ed anche la moglie, pronta a nascondere ogni cosa, anche le possibili mancanze del marito, pur di vederne salva la reputazione agli occhi della comunità. A dimostrarlo poi sono due sequenze fondamentali che arrivano a metà film, una dietro l’altra: la prima è una sorta di allucinazione in cui Freddie, depresso dagli esercizi del mentore che tenta invano di fiaccarne la ferinità, trasforma la festa da ballo a cui assiste senza partecipare in un vero e proprio baccanale, immaginando donne nude che accompagnano danzanti l’esibizione di Dodd; la seconda differente nel contesto - intimo anzichè pubblico - ma simile nell’allusione ad una sessualità rimossa e quindi deviata, ci mostra i due coniugi coinvolti in un erotismo sofferto, con la moglie “madre” che aiuta Dodd a masturbarsi davanti allo specchio.
Anderson traduce i contenuti del film in un lungo faccia a faccia tra discepolo e maestro, dapprima storicizzandolo all’interno di un epoca resa da un impianto visivo prelevato tra gli altri da Rockwell ed Hopper, successivamente ponendolo al di fuori di qualsiasi contesto per farlo assurgere a simbolo di uno incontro scontro tra uomo e natura, la sua e quella del creato, tra ragioni imposte ed impulsi primordiali, tra verità e finzione. Un film immenso quindi, forse troppo, che alla fine rimane vittima di un gigantismo che inizia e finisce nella centralità dei personaggi, e nella mostruosa bravura dei due interpreti, anteposti non solo dalle esigenze di sceneggiatura ma anche dalla rispettive impostazioni: sofferta, istintiva, a nervi scoperti quella di Phoenix (Freddie), equilibrata, dominante, ambiguamente sottile quella di Hoffmann, capace di lasciare in bilico il giudizio su un demiurgo che sta a metà strada tra inferno e paradiso. Sono loro a mangiarsi un film che a metà del suo cammino sembra quasi fermarsi a guardare i protagonisti più che a raccontarli, da una parte mettendo in scena la rappresentazione di una mancata seduzione, perchè alla fine Freddie torna sui suoi passi rinunciando alla cura della sua patologia (depressione, pazzia oppure lucida follia), dall'altra alimentando incertezza sulla plausibilità di quanto aveva precedentemente asserito, attraverso la ripetizione ossessiva e finanche ridicola delle pratiche a cui Freddie viene sottoposto da parte di Dodd. Così facendo il film pur mantenendo inalterato il gradiente di fascino e di mistero diventa inconsistente sul piano dei contenuti. In un livello generale che si mantiene comunque elevato ancora una volta il cinema di Anderson si fa amare soprattutto per la sua messinscena. In questo caso oltre alla direzione degli attori c'è la capacità di lavorare sull'immagine per rendere la dimensione psicologica in cui si gioca la vicenda. Anderson la richiama facendo ricorso ad elementi psicanalitici come la presenza continua dell'acqua del mare su cui la regia stacca a conclusione di sequenze di massima tensione (a leggittimare forse l'avvenuto scioglimento della stessa) o del sogno, presente in tutti gli snodi del film e nella sua conclusione, oppure ambientando la storia principalmente in non luoghi (un grande magazzino, alberghi, il deserto, un cinema) che scorporano gli avvenimenti dalla loro contingenza rendendoli astratti e difficilmente collocabili, ed ancora corredando il tutto con una colonna sonora paranoica, scandita da un ritmo sincopato e disturbante. Un lavoro eccellente che avrebbe avuto bisogno di maggiore concretezza per diventare quel capolavoro che "The Master" ha solo sfiorato.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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