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The Master

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su The Master

di ROTOTOM
6 stelle

The Master, ovvero: quando la somma delle parti non dà come risultato l’intero.



 Stati Uniti anni ‘50. A guerra finita Freddie è un uomo complessato e dissociato. Fortemente ossessionato dal sesso , dipendente dall’alcool e da una strana mistura – pozione – di sua invenzione. Velenosa.
Gli Stati Uniti durante la guerra non hanno conosciuto macerie se non quelle umane che furono spedite al fronte e poi restituite alla civiltà piene di orrori e incubi. Piene di paura. A incaricarsi della ricostruzione di queste macerie sono stati – anche – dei palazzinari dell’anima, personaggi obliqui, scivolosi e scaltri.

Carismatici catalizzatori del pensiero, dispensano certezze e risposte a domande neppure formulate. Spazzano l’aia della memoria per impiantare nel passato un germe che produca immediatamente frutti nel presente. La certezza della salvezza.

Promulgatori di idee base retoriche e di facile presa nell’animo del popolo confuso , erigono strutture dalle fragili fondamenta innervate di crepe esposte alla corrosione dell’acqua pura della domanda più ingenua. Perché tante contraddizioni? Crolla il castello, evidentemente. Crolla il tessuto connettivo che imprigiona la scienza alla fede intrecciando nodi di comodo, la cui tessitura stabilmente in mano al Master chiude i buchi con abilità da consumato manovratore di fili. Sarto o burattinaio a seconda delle necessità.



La fede. Avere fede è l’unica via di salvezza e la fede non ammette la fresca acqua del dubbio. Ai dubbi pensa la fede stessa. The Master è la madre. Che erige la propria chiesa sul cimitero delle anime perse per creare potere. Amministra. Indulge. Educa.

Lancaster Dodd millantatore, scrittore, scienziato, fisico nucleare, psicologo,  è colui che si prenderà pena dell’anima del Freddie violento, dissociato, gobbo e inadeguato con le donne e la vita. Il figliol prodigo tornato tra le braccia di un padre qualsiasi.   Dodd psicoterapeuta a braccio, inventore di “cure” bizzarre, sognatore di mondi lontani, è la tetta della fede dalla quale ogni uomo perso ritorna invano a reclamare il giusto nutrimento.



Il film di Anderson è ispirato alla figura controversa di Ron Hubbard fondatore dell’attuale  Scientology, alias Lancaster Dodd alias un monumentale Philip Seymour Hoffman. La sua Causa è chiesa, culto , confessione dall’organizzazione paramilitare.
Ma non è un film sull’imbonitore, The Master.
E’ una riflessione scarnificata della necessità dell’uomo di credere accedendo al salvifico capezzolo di una qualsiasi confessione pur di ottenere salvezza come allude l’ultima,  azzeccata inquadratura del film. 
Un volontario abdicare della ragione in favore di falsi miti, un nuovo folklore generato dalla paura che connoterà tutto il secolo a venire. Qualcosa che è profondamente ficcato nell’animo del popolo americano facilmente permeabile a fanatismi  parareligiosi per lenire quel senso di solitudine e alienazione che è alla base della società e che ogni Potere – religioso, mediatico, politico -  sfrutta per esercitare il proprio controllo.
Ma è anche il contrario: anche il culto ha bisogno di adepti, il culto vive se tenuto in vita dai credenti verso i quali il Master darà ogni rassicurazione necessaria per renderli dipendenti da esso.

Tutto il film è improntato sul rapporto di forza tra i due personaggi, equilibrio instabile di un relazione necessariamente simbiotica dietro la quale agisce subdola Peggy (  Amy Adams)  la moglie di Dodd: se la fede ha bisogno di un discepolo in terra, Peggy Dodd rappresenta la Vergine, corpo di ogni verità che sorregge la maestosità del “credo”, rappresentato dall’ufficio/grembo  del marito – sproporzionato, annichilente e tronfio – incombente sui discepoli con enfatica solennità.

 
Scritto e diretto da Paul Thomas Anderson,  The Master , raggelato intorno ai suoi attori tutti giustamente nominati nei principali premi ,  è  un film enormemente ambizioso quanto discontinuo. Se già gli attori come detto sono in stato di grazia, Joaquin Phoenix  coppa Volpi a Venezia (ma goffo quasi a livello caricaturale)  e tutto il cast candidato agli Oscar (si dovrebbe rivedere in lingua originale per godere appieno delle loro performance) è  la struttura che lascia più di qualche dubbio. L’ambizione latita in coraggio e il film rimane livellato su un confronto verboso e ipotetico che solo a tratti è sorretto dalle immagini.  
A scene di grande impatto visivo, succedono lunghi tratti assolutamente piatti dedicati al lungo interloquire tra i due protagonisti. Ogni tanto gira a vuoto ripetendo istanze già espresse. Il tentativo è quello di filtrare l’inutilità delle goffe sedute di bioenergetica, l’ipnotismo da baraccone condito da una rozza introspezione del passato rimosso, la psicoterapia manipolatoria attuata   di Lancaster Dodd ma senza trovare il giusto compromesso per farsi completamente carico del messaggio rimanendo ad aleggiare nel limbo dell’incompiuto. Senza osare (forse Scientology è davvero troppo potente) e calare il maglio, si adegua ad un braccio di ferro tra le due anime contrapposte, il virus e l’anticorpo che vorrebbe fagocitarlo.

Anderson si sposta un po’ dalla scena, si nota meno in regia creando il palco adatto ai suoi interpreti, la fotografia e la ricostruzione storica permettono certo l’immedesimazione nel clima anni 50 ma come le singole qualità millantate del Master non riescono a piegare la salvifica follia di Freddie così il dialogo semantico dei singoli aspetti del film non riesce a dare un senso compiuto a tutta l’operazione. Un punto di contatto tra storia e rappresentazione,  se c’è, è proprio questo.



Rimane in ogni caso un film importante, da meritare una visione, consci di trovarsi di fronte ad una storia molto americana, un po’ lontana da noi. Noi abbiamo Il Cupolone da secoli. Gli imbonitori che si ergono a salvatori dietro fattura, sono ancora dei dilettanti. 

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