Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
The Master trasuda cinema americano. Quello maledetto, viscerale, scomodo. Quello dalle potenzialità infinite, quello delle utopie dei grandissimi autori. Nei fotogrammi di The Master – tutti di incontenibile potenza – rieccheggiano, grandiosi e nostalgici, i fasti di Orson Welles e di Eric Von Stroheim: registi troppo geniali perché la macchina hollywoodiana li potesse lasciare “a briglia sciolta”.
P. T. Anderson, oggi tra i più talentuosi registi contemporanei, non interrompe la sua febbrile sperimentazione - soprattutto dopo un conclamato successo internazione quale Il petroliere -, continuando, con coraggio e caparbietà, il suo cammino attraverso le radici e le contraddizioni dell’America. E, per farlo, sceglie la strada più spigolosa e rischiosa: infrangendo la sicurezza che un film perfetto come Il petroliere possedeva. «Significantly, too, The Master does not look as elegant as There Will Be Blood. Its visual palette is more varied and less predictable.» Così scrivono su «CinemaScoope»: e non si può che essere d’accordo. Quell’ingranaggio perfetto che costituiva il nucleo del Petroliere viene sostituito da questo “gigante cinematografico” che tutto è fuorché perfetto. Ma non bisogna considerare ciò come un fattore negativo. Anzi. Erano forse perfetti Welles o Stroheim – ovvero, quei registi velocemente emarginati da una Hollywood che, invece, richiedeva meccanismi “ad orologeria”? Certamente no. Essi inseguivano piuttosto delle idee di cinema, infischiandosene delle conseguenze. Così, oggi, Paul Thomas Anderson.
Sì, perché The Master è un film che ferisce, che fa male. Un film «fatto di scene pesanti come la pietra, dove ogni momento è un blocco di marmo perfettamente tagliato, separato da un cut, ma unico e maniacale nella materia con gli altri.» [Positif] Un film che ci schiaccia poco a poco sotto la mole dei 70 mm. Un film scomposto e anarchico. Non c’è soluzione di continuità, in The Master: piani-sequenza e montaggio alternato, primissimi piani e campi lunghi: niente è prestabilito ma tutto è sottoposto e piegato ad un’idea..
E sbaglia chi considera The Master un film estetizzante, o essenzialmente d’attori. È vero, nessuno può negare la bellezza delle sue immagini: ma quanto dolore, queste, ci infliggono? E ancora. Non si può contestare il “peso” dei corpi attoriali di Philip Seymour Hoffman e di Joaquin Phoenix – quest’ultimo letteralmente “deformato” nella sua postura e gestualità: ma è proprio vero che la regia di Anderson scompaia al loro servizio?
Già, i due protagonisti: il nucleo di The Master. Forse, un servo e un padrone. O forse due uomini che si cercano e che si amano disperatamente. Non è Scientology – tema tanto blasonato all’uscita del film, che presto scompare sotto gli interrogativi, ben più grandi, imposti dal film – ma il sesso, una delle principali tematiche del film. Freddie Quell ne è ossessionato. La sua donna di sabbia – altra “utopia”, di un film che ne è infarcito – che si concretizza alla fine del film, per poi tornare utopia. E Dodd, che, con i sogni infranti degli altri, sta costruendo un piccolo impero.
La storia di due uomini “in barca” – non a caso, un altro tema tipicamente wellesiano. Essenzialmente dei falliti: perché, nel mondo andersiano, non esiste nessun vincente. Chi desideroso di lasciarsi il passato alle spalle, chi di utilizzarlo per migliorare la vita. Ed è proprio il passato, metaforicizzato, a costituire il leitmotiv iconografico del film: che cosa sono, infatti, se non proprio un simbolo del “passato”, quell’acqua e quei flutti che vediamo infrangersi alle spalle di una nave che sta solcando l’oceano?
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