Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Se dovessi fare un nome per dire chi, più di ogni altro, ha raccolto il testimone lasciato da Stanley Kubrick, non avrei dubbi: Paul Thomas Anderson. Per perfezionismo, eclettismo, produttività rarefatta e cadenzata. Rieccolo, allora, l'ormai quarantenne regista losangelino, tornare alla ribalta a quattro anni dallo stupefacente Il petroliere, per consegnarci ancora una volta una fetta consistente di controstoria americana, quella meno risaputa, che pure tanta incidenza ha avuto nel definire i caratteri di quel Paese. Siamo negli anni '50 e Freddie (Phoenix) è un ex marine, reduce dalla seconda guerra mondiale, con parecchio disordine mentale. Caracollando tra un lavoro e l'altro, finisce alla corte di Lancaster Dodd (Hoffman), imbonitore e guru di una setta chiamata La causa. Per Dodd, Freddie, inviso a molti dei membri della setta, rappresenta una sfida alle sue capacità persuasorie, mentre lo stesso Freddie oscilla tra fanatismo e scetticismo.
C'è Ron Hubbard e la vicenda di Scientology (quella a cui ha aderito Tom Cruise, per capirci) dietro la facciata di The master. E c'è un'America che comincia a perdere la fiducia nel suo sogno e che è disposta a vendere l'anima al primo ciarlatano che passa pur di trovare qualcos'altro in cui credere. La materia filmica (quasi due ore e mezza di durata) è tanta e Anderson sembra mostrare qualche impaccio nel riordinare sul finale i fili della trama. Un vero peccato, perché anche nel caso di The master, come già era avvenuto con Magnolia, Ubriaco d'amore e Il petroliere, ogni inquadratura è un'opera d'arte, la musica con riverberi atonali e dissonanti si incastona magnificamente nelle immagini e i duetti tra i due protagonisti, serviti da dialoghi pungenti, tolgono il fiato tanto è lo sfoggio di bravura e la gamma emozionale esibita. Un capolavoro mancato per un soffio, con una ridda di scene potenti (l'inseguimento nei campi, il ballo nudi, il confronto "terapeutico", i continui scontri fisici di cui Freddie si rende protagonista) e una chiusura eccessivamente diluita.
Leone d'argento per la migliore regia, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix) e premio Fipresci come miglior film alla 69. mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2012).
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