Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Errante, ancora, l’Uomo sbanda, si dimena, cerca tra le schegge traumatiche del passato, invano: la strada è la via, l’orizzonte è un ricordo, l’utero sabbioso un limbo da cui non poter più evadere. (M.Valdemar)
Quanto il regista si sia ispirato a L. Ron Hubbard e a Scientology, a me interessa poco (anzi pochissimo): sono semmai i giornali che nel fare la loro informazione preventiva non sempre puntuale (che spesso diventa chiacchiericcio gossipparo) hanno pigiato fortemente il pedale sopra tale tema, parlando quasi esclusivamente di questo e tralasciando tutto il resto, come se fosse l’elemento più importante e determinante, quello che più di ogni altro poteva connotare la pellicola nel “fare notizia” e cooptare adepti per una fruizione in sala in funzione di un presunto “passa parola” sul sentito dire legato a un’attualità un po’ scottante, ma superficiale e meno “universale”di quanto invece non intenda essere la pellicola.
Mi interessa semmai molto di più come ancora una volta Anderson sia invece riuscito ad esplorare rendendolo così esplicito, il rapporto che più o meno tutti noi instauriamo (o abbiamo avuto) con i propri “cattivi maestri” o presunti tali (i padri e i padroni incontrati o conosciuti nel percorso anche formativo della nostra esistenza e dai quali difficilmente – e purtroppo – si riesce a volte ad affrancarsi definitivamente, anche se ovviamente non sempre e per fortuna si tratta di casi limite come questo), e come di conseguenza ci rappresenta l’America (nella quale, nolenti o volenti, con molto masochismo finiamo per rispecchiarsi un po’ tutti prima o poi) con il suo bisogno estremo di un Capo da seguire e amare ciecamente che va ben oltre le sette e la circonvenzione, poiché è profondamente radicato proprio nel suo DNA. Mi interessa soprattutto l’intrigante maniera con cui, portando in primo piano un’anima tormentata e in delirio (quella del protagonista della nostra storia), prova a raccontarci la disperata, folle odissea della caparbia, (im)possibile ricerca di un “approdo” solo in apparenza sicuro all’interno del quale per lo meno tentare di avere un chance per essere alla fine davvero liberi, o quantomeno affrancati dai propri fantasmi persecutori (vedi al riguardo la scena in cui Freddie, il discepolo disturbato dalla guerra e dalla vita che obbedendo alla prescrizione perentoria del suo mentore, arrancando freneticamente e a occhi chiusi da una parte all’altra della casa, sbatte sulla parete o percuote i vetri della finestra nel tentativo di vedere “oltre” e ricreare così una apparente parvenza di dimensione del reale che non ha più nella sua testa, o quella altrettanto significativa della sua “inutile” fuga verso l’orizzonte lontano in sella a una motocicletta).
Ma chi ha davvero bisogno, e soprattutto di chi e di che cosa? Domanda molto pertinente che dovremmo porci più spesso evitando la retorica. Perché ci autocondanniamo alla schiavitù di comandare o essere comandati senza immaginare altre possibili alternative più neutrali? Forse – sembra voler suggerire il regista - perché per essere neutrali dovremmo essere anche liberi, ma “liberi veramente”… tutt’altro che semplice però… perchè la libertà, come una donna nuda modellata nella sabbia, non si può proprio e per davvero possederla, si potrà semmai far solo finta di “sfiorarla” se si ha sufficiente coraggio per osare, poichè altrimenti non resta che sognarla e contemplarla come un’utopia... e se si ha troppa paura del reale, sono guai seri allora… perché le disfunzioni “percettive” sono molto castranti e pericolose, come ci mostra chiaramente questa storia.
E’ inconfutabile in ogni caso allora che il discorso coercitivo delle sette è centrale, e non poteva essere altrimenti (ma chi si aspettava un pamphlet cinematografico sulla capacità di irretire e depredare economicamente gli affiliati a una congregazione che lascia pochissimi spiragli di fuga e di salvezza, rimarrà comunque fortemente deluso). Non è però sicuramente l’elemento prioritario di questa nuova titanica impresa con cui Anderson, aiutato da due interpreti in vero e proprio “stato di grazia”, per due ore e mezzo prova a trasformarsi “a suo modo” in un novello Orson Welles alle prese con il suo personale Citizen Kane, che giganteggia e gigioneggia con la macchina da presa evitando spesso persino di onorare le già codificate regole sintattiche del fare cinema, e utilizza un montaggio che agisce per assonanze e corrispondenze, creando così vuoti ed ellissi anche narrative che lo spettatore è chiamato a riempire da solo per rendere lo svolgimento più eloquente, ma che lasciano ugualmente aperte troppe questioni o interrogativi ai quali probabilmente sarebbe impossibile dare risposte certe.
Bastano infatti la scena iniziale sulla spiaggia (di rara potenza anche “drammatica”), il ballo nudo, il carrello lungo la banchina che segnerà il destino futuro del “dannato” Freddie Quell, i claustrofobici “duelli” verbali fra campi e controcampi simili a veri e propri match di pugilato simulato, o il piano sequenza nei grandi magazzini, a farci comprendere che ci troviamo di fronte a una insolita e nuova esperienza di visione invero molto personale e “disordinata” e tutt’altro che semplice da “digerire” (in questo Anderson è abilissimo, ancora una volta, nello spiazzare e prendere di contropiede lo spettatore) che conferma l’eccezionale talento istrionico dell’autore, e soprattutto una capacità anche intuitiva fuori dal comune che è poi quella di saper trovare sempre la mediazione giusta fra ciò che si è deciso di portare sullo schermo e lo stile da adottare per la messa in scena delle cose, un modus operandi che pur rimando comunque perfettamente riconoscibile, si trasforma e si rigenera in base alle necessità del progetto da realizzare, fino a diventarne l’insostituibile “tramite” per la divulgazione “dell’idea”.
Accade dunque così anche per The Master che è un film tutto costruito “nei” e “con i” dettagli, di rado così fondamentali come in questo caso, messi in assoluto primo piano a partire dalla definizione scenografia degli ambienti (dal primo e un po’surreale incontro tra Freddie e il suo “master” nella cuccetta della nave, all’ultimo dei loro contatti, consumato nel più “smisurato” spazio dell’immenso ufficio londinese tutt’altro che a misura d’uomo) e dell’inquadratura (i campi e i controcampi perfetti e misurati dei frequenti “faccia a faccia” a cui accennavo prima), spesso integrata e vivificata da uno scarto fisico (o anche più semplicemente da una variazione cromatica) che sembra originato da una parola o da un qualcosa che avviene invece fuoricampo e che noi non percepiamo (ma che “sappiamo” che c’è, che è accaduta), o resi più evidenti con l’ausilio dell’andamento fluviale, accidentato e sconnesso del racconto che spesso non rispetta nemmeno luoghi e coordinate temporali per farsi espressione invece di un percorso solo mentale, e quindi più liberamente ondivago e svincolato.
The Master dunque (e lo ripeto) non è un film su Scientology in senso lato, ma bensì una riflessione aggiornata ai tempi, sulla dinamica sempre un po’ problematicamente perversa, potente, ambigua e distruttiva, che si instaura tra servo e padrone (esattamente come lo erano state a suo tempo alcune fondamentali opere di Losey) e sulla conseguente incapacità di una società smarrita (in questo caso gli Stati Uniti di ogni dopoguerra) che non sa più a chi credere perché ha perso l’innocenza e che quindi alla fine inesorabilmente, finisce per affidarsi e prestare fede a chi sembra poterle regalare (anche turlupinandola) un sogno (im)possibile di rinascita e “rigenerazione”.
Freddie Quell è un reduce provato dalle privazioni della guerra, dall’alcool, dai vortici di una mente intricata e martoriata, alienato dalla solitudine, intorpidito dalla sofferenza esistenziale. Un essere distrutto che dopo il trauma bellico sembra aver perso definitivamente la bussola e l’orientamento (come già accaduto a sua madre, poiché qui forse le “tare” erano già dentro la famiglia), non sa più confrontarsi col presente, né ricostruire analogicamente il suo passato e che di conseguenza riesce solo a smarrirsi sempre più in se stesso, ostaggio di una mente disconnessa e frantumata, perduto e inebetito dentro la sua anaffettività alienata e disequilibrata, dove si accavallano ipotesi allucinatorie e realtà, costantemente in bilico com’è tra il suo (non) vivere quotidiano e le astrazioni che alterano i piani della conoscenza fino a fare affiorare in superficie domande e bisogni ancora nebulosamente incerti, ma strettamente connessi con le sotterranee e nascoste logiche del desiderio.
Quando accidentalmente incontra Lancaster Dodd, carismatico leader di una setta denominata “The Cause” che lo “raccoglie” e lo “accoglie” tentando di educarlo alla propria “religione” intossicandolo con l’affabulazione della parola in nome di una nuova verità da annunciare al mondo, si rende docilmente succube di chi pretenderebbe di fornirgli nuove prospettive che potrebbero presagire una possibile “rinascita”. Ma è a questo punto che si crea un sotterraneo cortocircuito di doppia attrazione (con finalità assolutamente contrapposte) che finirà per farlo rimanere imprigionato nella ragnatela di quella procedura coercizzante definibile come una vera e propria azione di “plagio”, ma dove però anche Quell intrigherà profondamente quello che poi diventerà il suo “guru”, grazie alla specialità che ha di riuscire a creare mefistofeliche pozioni a base di alcolici e sostanze chimiche reperite in modo del tutto casuale.
In preda ai fumi del gin e della trielina, del topicida mescolato al rum e della colla da tappezziere, la sua inquietudine conquista infatti Lancaster a tal punto che questi non potrà poi fare a meno di “farlo suo” (simbolicamente), ed è così che inizia a plasmarlo - manipolandolo - per averne il completo (pre)dominio, fino a farlo diventare un adepto, un guardia-spalle, un ipotetico braccio destro, un figlio più devoto di quello naturale, un servo, ma soprattutto la cavia di un esercizio perverso e sempre più totalizzante in cui finisce per acquisire il ruolo di una presenza persino necessaria e insostituibile per soddisfare il suo ego e dimostrare agli altri “che ha ragione”.
Freddie e Lancaster sono dunque due uomini che si confrontano (e affrontano) mettendo in movimento (e utilizzandoli in un rapporto a doppia mandata), tutti i loro comportamenti devianti che sono poi quelli che contengono i prodromi dell’attrazione: la differenza fra i due quindi, sta solo nel modo in cui riescono a gestirli e metterli in pratica, e certamente quello di Dodd è più subdolo e calcolato, e come tale anche molto più pericoloso.
…i suoi tempi e i suoi spazi si erano ormai definitivamente consumati e non erano più recuperabili, né sarebbe stato possibile trovare ancora sbocchi decenti: sapeva da dove era partito, ma non riusciva a riallacciare i nodi per ricongiungersi al suo passato. Incontrando Dodd aveva immaginato di intravedere un possibile nuovo approdo in una rigogliosa terra al di là del mare che scorgeva lontana, ma possibile. Adesso però non vedeva più alcun porto decente, confortevole e tranquillo all’orizzonte in cui poter attraccare: c’erano solo ripide scogliere scoscese e sassosi anfratti inospitali ad attenderlo dall’altra parte che lo costringevano a rimanere per sempre un naufrago senza patria e senza futuro, ancorato a quel canotto traballante sbattuto dai flutti tempestosi delle onde che prima o poi avrebbero finito per inghiottirlo, togliendogli così l’ultimo aggancio che gli potesse consentire di provare a rimanere a galla…
Ben al di là dei riferimenti – più o meno espliciti - alla controversa personalità di L. Ron Hubbard e alla Dianetica[1] dunque, Anderson con questo suo corposo e ricco affresco sull’America degli anni cinquanta che si riflette e si rispecchia nella vita dell’oggi, con uno stile registico e interpretativo asciutto ma composito e soprattutto capace di trasformare le immagini in un racconto di straordinaria presa (più razionale che emotiva), torna dunque ad indagare una relazione di coppia, quella fra due uomini che si trovano ad essere legati magneticamente, dolorosamente, violentemente e indissolubilmente, in un rapporto comunque segnato dal conflitto, ma allo stesso tempo anche dalla dipendenza, e che affonda così le sue radici in uno degli humus più magmatici e vitali della società e della cultura, quello in cui la libertà individuale sembra essere se non proprio tutto, per lo meno la cosa più importante (se si vuole, un trofeo per qualcuno da esibire, per altri da consegnare senza troppo discernimento al primo offerente per diventarne schiavo), che è poi – andando un po’ più oltre – proprio uno dei nodi centrali che regolano da sempre i rapporti e le contese dell’intera umanità, quello che esplicita il bisogno (ancestrale?) di una guida, di un punto di riferimento, di un qualcosa a cui credere e seguire ciecamente, e conseguentemente, di quanto si è disposti a “cedere” anche di noi stessi per arrivare ad individuare questo plus e alla fine “possederlo” (per essere posseduti e quasi cannibalizzati).
Ecco allora che assistiamo a questa lotta impari che si sviluppa fra banali tentativi di lavaggio del cervello e più subdole procedure di ipnotizzazione, alternate a manifestazioni di affetto e di cura altrettanto deleterie, in un crescendo che, fra improvvisazioni esacerbate, esibizioni furenti, invenzioni e contraddizioni, prova a disvelare i meccanismi di coercizione asservita delle menti per tentare di cancellare un passato che è certamente doloroso, ma anche tutto da riconsiderare.
Ed è proprio attraverso questa relazione che il regista riesce a porre quesiti sulla perdita dell’individualità, sulla miseria umana, sullo smarrimento (in)cosciente della mente quasi come se si trattasse di una deriva un poco schizofrenica, ma anche sulla possibilità (invero remota) di ritrovarsi, sul bisogno di sentirsi amati, e sull’illusorietà di tutto questo. Su tale terreno davvero molto scivoloso, pone così con spavalda e consapevole baldanza, le fondamenta per una costruzione cinematografica di eccezionale levatura, dominata dalle superlative interpretazioni dei due protagonisti che ne diventano la materia viva e pulsante: un melodramma psicologico tutto al maschile dunque, ma dove è poi proprio la donna (giusta l’osservazione fatta al riguardo da Giulio Sangiorgio) a diventare mito e ossessione che permea ogni immagine e proiezione grazie anche alla altrettanto strepitosa prova di Amy Adams che fornisce alla sua disturbate figura non meno centrale, la dimensione “tragica” di una specie di Lady Macbeth ante-litteram, che tesse in sordina la sua tela, ordisce trame e determina i destini di tutti gli altri dentro un quadro complessivo di personaggi (fra i quali mi piace ricordare anche una ritrovata Laura Dern) grotteschi, intensi, paradossali e disumanamente umani (Chiara Borroni) come solo quelli creati da questo formidabile regista sanno essere, davvero straordinari nel loro procedere un pò frammentato, ma scandito da una tensione sottile e penetrante che si poggia sulla dirompente forza di una composizione formale, cromatica e musicale inappuntabile per muovere e giustificare ritmi, tempi ed emozioni che si esplicitano attraverso splendidi squarci di puro cinema (a suo modo, grandioso, magniloquente ed assoluto): molto più “ottimo cinema” che un buon film, forse allora – come ha scritto qualcuno probabilmente con più di una ragione - visto che l’opera non è esente da difetti. La sintesi comunque è appropriata per stigmatizzare con un intuito secco, acuto e penetrante, non solo i pregi, ma anche i limiti di questo sorprendente manufatto, perché The Master – e lo ripeto - è tutt’altro che un film perfetto come invece lo era Il Petroliere, ma paradossalmente è proprio questo suo essere a volte un po’ slabbrato a renderlo magmaticamente e grandiosamente magnifico: narrativamente sembra fare perfino un po’ fatica in alcuni tratti a svilupparsi e progredire con i suoi “salti improvvisi”, le sue stasi e i successivi imprevedibili “ritorni” come nei flussi incoerenti del pensiero. A volte “rallenta” forse troppo, indugia, tergiversa, fino quasi a incartarsi su se stesso, ma sono solo piccole pause temporanee, perché subito dopo riprende quota e torna a volare molto in alto, fino a farsi di nuovo “cinema assoluto”, come nel serratissimo, persino “impressionante” dialogo del primo incontro privato fra “i due contendenti” simile a una impietosa, brutalissima tortura, e grazie al quale i due riescono a delineare magistralmente (la sceneggiatura è altrettanto concreta e strutturata) non solo i limiti del loro rapporto, ma anche l’esclusività dello stesso, o in quello altrettanto suggestivo in cui la dilacerazione devastazione che gli scarnifica il cervello e tiene Freddie in pugno fino a renderlo un relitto alla deriva alla ricerca disperata di se stesso, si abbatte come un tornado sulle suppellettili della cella che lo imprigiona gomito a gomito con la sua guida, entrambi separati da una parete al momento invalicabile ma comunque in ogni caso incapace di contenere sia l’esplosività verbale dell’uno che quella fisicamente distruttiva dell’altro, che entrano di conseguenza e inevitabilmente in collisione, deflagrando. Fra tutte però emerge soprattutto e perentoriamente proprio la sequenza che dovrebbe rappresentare la presunta e definitiva consacrazione del potere di Lancaster sul suo adepto, il suo esser riuscito a compiere fino in fondo l’opera della decerebralizzazione dell’allievo e che invece si trasforma, con Freddie a bordo di una motocicletta che sfreccia improvvisamente “libera” nel deserto e si perde lontana e senza ritorno, nel suo fallimento: sorpreso e incapace di comprendere le ragioni della fuga, il guru momentaneamente sconfessato, è così costretto ad assistere impotente allo sbriciolarsi imprevisto delle sue teorie e al dover dare di conseguenza ragione a tutti gli altri che avevano sempre considerato l’intruso una minaccia, anche se quella ribellione improvvisa (ma anche inconsapevole) renderà Freddie ugualmente incapace di sottrarsi, di placarsi, di ritrovarsi, di “riscattare” la sua indipendenza mentale. E’ in quel momento allora che è la voce di Lancaster, abituata ad essere perentoria, ferma, dominatrice, si trova costretta a ripiegare, a spegnersi in un attonito gorgoglio quasi lamentoso, nella distanza crescente e incolmabile che ormai sembra separarlo dalla sua creatura.
Il racconto della relazione si chiude poi (senza per altro concludersi davvero però) in un loro successivo nuovo incontro in Inghilterra, nello spazio megalomanicamente esibito dello studio del leader costruito a misura del suo egocentrismo: un’area immensa, sproporzionata, bloccata nella sterilità del suo essere enorme, un vuoto quasi pneumatico che a me sembra possa rimandarci in maniera diretta e quasi speculare, a quella altrettanto potente e spiazzante del bowling domestico che chiudeva proprio Il Petroliere, ad oggi il suo capolavoro più certo ed indiscusso: gli uomini dentro a quegli spazi (angusti o illimitati che siano) sembrano vacillare nell’inspiegabilità, forse nell’accettazione, certo nella delusione, anche se questa volta non è rimasto solo perchè l’immancabile, onnipresente donna-moglie-colonna è tornata indomita al suo ruolo di deus ex machina, ferma e solida e persino impenetrabile come una roccia, come a voler puntellare lo spazio stesso e a reggere un tutto fatto di nulla che non ha via d’uscita né possibilità di successo o di conclusione. (Chiara Borroni).
Si ritorna allora così (e inevitabilmente) allo spazio angusto in cui i due si erano invece incontrati la prima volta, perchè è proprio nel confronto diretto delle due sequenze e dello loro dissimili location che si nasconde perfettamente esplicitato il senso ultimo dell’opera: due “avversari” che si ritrovano alla fine, nuovamente al punto di partenza, uniti ma al contempo più che mai divisi da un qualcosa che sembra sia diventato col tempo sempre più insormontabile e che va davvero molto oltre la contingenza “cronachistica” della setta miliardaria, con un’ultima inquadratura altrettanto “sospesa” che chiude forse l’analisi di una psiche, ma che invece di concludere l’opera la riapre a nuove prospettive, tutte lasciate alle ipotetiche letture interpretative dello spettatore.
E’ così allora che il film alla fine ci irretisce e intriga con la sua tensione sotterranea fra “schiaffi”, “abbracci” e ritorsioni, che ci avvolge e ci sconvolge con il suo cinismo devastante che ci permette di tuffarsi dentro i più torbidi e vischiosi fondali della mente per perdersi definitivamente insieme ai nostri due “eroi”, nelle melmose pulsioni e nelle dipendenze mefitiche della psiche.
Sullo schermo come ho già accennato, al di là della già citata “sconvolgente” bella prova di Amy Adams, lo scontro è veramente tra titani, grazie a un Philip Seymour Hoffman davvero inarrivabile (immenso, mi verrebbe da dire) che giganteggia nel disegnare il ruolo del profeta “canterino”, allo stesso tempo abbagliato e indebolito dal suo stesso Credo, e che ha di fronte l’altrettanto magnifico, tormentato e smagrito Joaquin Phoenix (forse a conti fatti il vero “master” della storia) il cui sguardo “errante” sarebbe sufficiente da solo a definire al meglio il suo personaggio: la sua interpretazione è altrettanto profonda, dolorosa e sofferta anche sotto il profilo della fisicità, una di quelle insomma in cui anche il corpo gioca la sua parte con quella postura viziata e spigolosa tutta incurvata sulle spalle, quel suo procedere un po’ stantuffeggiante che diventa distruttivamente furente nei suoi repentini scatti d’ira che lo rendono così simile a un drago preso a laccio da un padrone che vuole insegnarli – costi quel che costi – a soffiare a comando e a sputare fuoco su ordinazione, entrambi comunque impegnati a combattere una lotta fra colonizzato e colonizzatore, di insostenibile violenza emotiva.
Oltre al superbo montaggio di cui ho parlato prima, contribuiscono non secondariamente all’ottima resa complessiva anche la bellissima, arcana e disturbante partitura musicale di Jonny Greenwood, insostituibile e magnificamente appropriata nel ritmare gli andamenti spesso concitati della storia e dei suoi personaggi alla deriva, adeguandosi sempre con la perfetta corrispondenza dei suoni, ai “tempi” del regista, e la fotografia denaturata (ruvida e geometricamente materica la definisce Sangiorgio) di Mihai Malaimare Jr.
…lui si guarda intorno e non ha più terra dove andare…
e non c’è un’ombra nella quale scomparire.
Lui si guarda i piedi e non ha scarpe adatte per continuare a ballare… (Ivano Fossati, Terra dove andare).
[1] definita dal suo fondatore “la scuola più avanzata che l’uomo abbia mai fatto”. Il suo nome che deriva dal greco “Dias” (attraverso) e “Noos” (mente, pensiero, anima) collegati alla parola “etica”, vorrebbe indicare il continuo progresso di una coscienza (Scientology = Scienza della Coscienza) che è in costante evoluzione e trasformazione dei dati acquisiti al fine di ottenere una sempre più perfetta consapevolezza della vita, che i seguaci indicano come “Un sistema per l’analisi, controllo e sviluppo del pensiero umano, il quale fornisce anche tecniche per ottenere maggiori capacità, razionalità e libertà a partire dalla scoperta della singola fonte delle aberrazioni che poi sono la causa principale delle malattie psicosomatiche".
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