Regia di Ang Lee vedi scheda film
Artista cosmopolita, Ang Lee. Ed eclettico, soprattutto, capace com’è di cambiare continente e sistema cinematografico (da quello mainstream hollywoodiano alla realtà produttiva taiwanese), oltre che di adattarsi ogni volta a generi e registri nuovi con una nonchalance che non lascia certo trasparire le incertezze della “prima volta”. Lo dimostra anche in Vita di Pi 3D, che suggella l’incontro del cineasta con la stereoscopia. E il risultato è notevole. Complici anche avanzate tecniche Cgi, il film rappresenta certamente un importante step evolutivo in questo senso, regalando la piacevole sensazione che la terza dimensione non sia solo fine a se stessa, ma anzi risulti indispensabile nel trasportare sul grande schermo certe ambientazioni davvero spettacolari (si pensi alla scena dell’isola o alla riproduzione della realtà indiana, molto meglio riuscita rispetto a The Millionaire di Danny Boyle), nonché un soggetto letterario (l’omonimo romanzo di Yann Martel) altrimenti destinato a rimanere sulla carta scritta. Vincitore del prestigioso Man Booker Prize e punto fisso fra i bestseller del “New York Times”, il libro, per via della sua stessa composizione, ha a lungo allontanato concreti tentativi di trasposizione cinematografica fino a quando i suoi tanti spunti sono stati fatti propri da Lee. Il quale, in particolare, ripropone un tema a lui caro (basti pensare a Lussuria. Seduzione e tradimento o a I segreti di Brokeback Mountain), quello cioè che vede le ragioni dei sentimenti più forti della ragione stessa. Pi, infatti, è un bambino indiano che sta per trasferirsi in Canada insieme alla sua famiglia e allo zoo da questa gestito. Durante il viaggio, però, la nave naufraga (voluta e inevitabile la similitudine con Titanic) e a sopravvivere a bordo di una zattera di fortuna saranno solo il piccolo Pi e una tigre, Richard Parker. I due dovrebbero eliminarsi a vicenda ma non sempre la regola mors tua vita mea ha la meglio su quella dell’umanità. Anche se a metterla in pratica è un animale, che nelle mani del regista taiwanese diventa il punto di contatto tra l’uomo e Dio. Buonismo e “correttezza politica” non mancano naturalmente, ma l’effetto è meno melenso di quello che si sarebbe potuto rischiare.
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