Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
Un Gerard Butler molto somigliante a Silvio Muccino interpreta per il fratello Gabriele una sconclusionata storia di ricerca della felicità. Un certo George Dreyer, ex campione di calcio, rimasto solo e squattrinato dopo la fine della carriera ed il divorzio dalla moglie Stacie (Jessica Biel), riesce miracolosamente a riemergere dalla miseria materiale ed affettiva grazie ad un nuovo incarico: nella veste di allenatore di una squadra di bambini conquista, suo malgrado, il cuore di alcune giovani mamme spregiudicate, rimediando qualche avventura sessuale, qualche guaio, ma anche l’occasione di riacquistare successo, fama e ricchezza. Intanto, sullo sfondo, si trascina il rapporto altalenante con la ex moglie ed il figlio Lewis, che fa parte della formazione di campioncini in erba a cui George, in un parco della città, insegna a palleggiare e segnare i goal. Una trama striminzita piuttosto improbabile arranca tra una manciata di episodi del tutto insignificanti e logicamente slegati, che sembrano piazzati a caso, nel corso del racconto, con il solo scopo di giustificare, sia pur a stento, le stellari presenze di Dennis Quaid (nella parte del ricco mascalzone) e di Uma Thurman e Catherine Zeta-Jones (nei ruoli di due delle sordide seduttrici di cui sopra). Non c’è coerenza né pensiero in questa insulsa vicenda, che pretende di descrivere, senza un briciolo di inventiva né competenza alcuna, il decorso di una crisi esistenziale: quella di un uomo abbandonato a se stesso, ma circondato dagli allettamenti mondani provenienti da una combriccola di persone senza scrupoli. Un soggetto alla deriva che si sforza di resistere alle tentazioni, o perlomeno, di cedervi con moderazione, quel poco che gli consente di sopravvivere in un mondo peccaminoso senza perdere di vista la strada che conduce all’amore. Un cuore fondamentalmente onesto e puro è messo in ombra da un ambiente miope e venale, in cui ognuno pensa per sé, dimenticando i veri valori che rendono bella la vita. Moralismo e buonismo vanno a braccetto in una selva di luoghi comuni, in cui potere, desiderio ed ambizione si identificano con un male misurabile in moneta, mentre invece non ha prezzo l’emozione di un pomeriggio trascorso col proprio figlio a scorrazzare per la campagna a bordo di una rossa Ferrari. Poco importa se il contrasto polemico finisce per mordersi la coda. Il fatto è che la rinuncia è un atto nobile, ma, di per sé, poco cinematografico. Meglio dunque caricarlo di qualche effetto che possa fare scena. L’essenziale, del resto, è apparire. Ed è pertanto inutile soffermarsi sulle ragioni che spingono a cambiare. Il dramma, si sa, fa spettacolo soltanto quando si produce in uno zigzagare privo di costrutto. Un dribbling che risponde solo all’impulso di confondere le acque ed animare il gioco. Dopodiché basterà appiccicare in fondo un bel lieto fine perché il pubblico distratto si convinca di trovarsi di fronte alla classica favola romantica, dove trionfano l’eroe che è riuscito a sfidare le false lusinghe, la sua donna che l’ha saputo perdonare, ed i sentimenti che vincono su ogni altra cosa. La ricetta è semplice. Non altrettanto facile è, fortunatamente, cascare in un inganno così maldestramente architettato.
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